martedì 23 maggio 2017

Il Garage Indiano_9 Il tuffo


C’è Giugi.
Dove sei stata? Le chiedo. Non risponde. E subito mi rendo conto, con lo stesso effetto che fa un ghiacciolo sulla schiena, di iniziare a sentir la solitudine. Mi ritrovo a fare delle domande ad alta voce ad un geco sulla parete. Si è messa vicina alla luce accesa e c’è la sua cena che sta volando intorno alla lampadina. Fa dei piccoli scatti, ogni volta che si avvicina. Sono seduto subito fuori dalla porta di camera mia, sull’ingresso che ha un balcone comunicante con tutte le altre camere, riparato dal vento a tal punto che sudo anche lì.
Non hai caldo? L’ho fatto di nuovo. Ma stavolta consapevolmente, parlando un po’ a me stesso. La massima oggi è toccato il 46°. Adesso, alle 22:00 dovremmo essere intorno ai 36 37. Comunque caldo. Talmente caldo che oggi pomeriggio mi era venuta voglia di andare in piscina. Sabato pomeriggio, niente di meglio che un tuffo. Ma tutte le piscine di Jodhpur approcciabili come prezzo sono fuori dalla città, e soprattutto, mi sono detto, se sono così tanto approcciabili (50 rupie, all’incirca un euro per l’intera giornata), il costo sarà sicuramente inversamente proporzionale alla quantità o alla qualità sublime delle malattie che potrei prendermi facendo un bagno in quell’acqua. Ma più che per questo é per la distanza che desisto. Mi viene quindi in mente un hotel con piscina, proprio nel centro della città vecchia, rimesso a nuovo da qualche anno, uno di quelli di lusso a 6 stelle. Decido di fare un tentativo: Pronto? Posso parlare in inglese? Quanto costa venire in piscina da voi? Ah, per questo prezzo ci posso stare due ore. Ok, probabilmente vengo tra un po’.
3000 rupie, € 42, due ore. Completamente fuori di testa. Esco da camera mia e decido, essendo stato bloccato lì tutto il giorno, di fare una passeggiata. Nel cortile del forte incontro Shubham che mi dice, guarda tra poco inizia il corso antincendio del forte, con anche delle prove pratiche. Vuoi assistere? Decido che non ho di meglio da fare e mi metto a sedere. Erano state sistemate sul pavimento due enormi coperte e Shubham mi ha fatto notare che erano coperte filate dai carcerati di Jodhpur. C’era un’etichetta che lo diceva. Fatto sta, che dopo una decina di minuti, (ormai erano le 6:30, il di parecchio dopo l’orario di chiusura del forte) il tappeto si è riempito del personale al completo del forte, con tanto di appello e scelta arbitraria dei volontari per le prove pratiche seguenti. Decido di fermarmi soprattutto perché volevo testare la mia conoscenza dell’Hindi e capire quanto riuscivo ad intendere di quell’omone che stava parlando, sui vari tipi di estintori da utilizzare ed dove farlo. Fermo lì seduto, mi torna il caldo. Basta, scendo in città, vado a piedi. Conoscenza dell’hindi, molto bassa. Si riusciva a capire quello che diceva soltanto per come si muoveva l’istruttore. Utilizzava degli strani strumenti e spiegava come fare a tirar fuori da una stanza in fiamme degli importanti documenti, con un bastone e un uncino in fondo.
E arrivo a quel pozzo che hanno restaurato qualche anno fa. Per chi non avesse mai visto un pozzo indiano, come lo chiamano loro uno stepwell, basta dire che è uno di quelli fatto a gradoni, spesso a pianta quadrata, che scende giù non si sa per quanto. Sembra un po’ una piramide azteca al contrario. In un cartello, poco distante da me, c’è scritto che il pozzo ha più di 400 anni ed è stato restaurato negli ultimi due anni riportando alla luce degli splendidi intarsi che ritraggono vari animali fantastici. Io gli animali non li vedo, ma è veramente un bel recupero. A quest’ora, verso le 6:30, ci sono sempre dei ragazzi seduti lì intorno. Fossimo in Italia si starebbero facendo le canne. Ma qui in India no, gettano da mangiare ai pesci, mangiano noccioline, studiano. Probabilmente quelli che si fanno le canne arriveranno soltanto tra qualche ora. Nel frattempo mi metto seduto, poco distante da loro, come sempre solo. Un gruppo di adulti è seduto lì, molti gradoni più in giù, quasi sull’acqua. Diciamo, a un piano d’altezza. Quand’ecco che un ragazzo, uno di loro, si lancia.
Le gambe verso il basso, completamente vestito si tappa il naso con una mano. In un secondo, con un tonfo eccolo in acqua. E dopo di lui un altro, e poi un altro ancora. Tutto il gruppo cinque o sei ragazzi si sono buttati nella acqua del pozzo. Vestiti. Senza nessun tipo di preavviso, soltanto sfilandosi le ciabatte. Tanto in cinque minuti saranno già asciutti.
42 euro per due ore di piscina, vuota, come ne abbiamo centinaia nelle nostre città, oppure il coraggio di lanciarsi da un gradone nello stepwell, con altri ragazzi, che si divertono e si schizzano a vicenda tra amici. Certo se lo facessi io, probabilmente prenderei più di un brutto male, ma che voglia. Magari l’acqua non è neanche fredda, sicuramente non lo è, ma la soddisfazione di lanciarsi e godere del corpo fradicio mentre si esce, avanzando a gattoni sui primi scalini bagnati, deve essere incredibile. Sarebbe un po’ abbandonare ciò che c’è dietro, o perlomeno adesso penso che sarebbe così: perdere ogni contatto con la realtà, dimenticarsi per un istante di essere a 6600 km di distanza da casa, essere soltanto un corpo in volo diretto chissà dove, ma sicuro di tornare, e tornare fresco, completamente bagnato. Ieri uno dei miei migliori amici mi ha mandato un suo autoscatto di lui al lavoro, così, per farmi compagnia. Faceva una boccaccia, ma nonostante questo era in giacca e cravatta alla scrivania. Così ripenso la mia scrivania, a quante ore ho passato seduto lì, qualche volta soddisfatto, altre senza la minima voglia di continuare a starci, non trovandone un senso. La giacca, la cravatta che qualche volta mi metto (devo dire molto poco spesso, solo durante le grandi occasioni), abbandonarle su quel gradino. E lanciarsi.
Ma quando avremo il coraggio di fare una cosa del genere? Quand’è che ci verrà dato di trovare l’energia e la spinta interiore per abbandonare ciò che ci siamo convinti costretti ad essere e di essere? Ripenso allo sguardo del bramino, la sua tranquillità e pacatezza, la felicità di Nanil, che non ha niente se non la sua famiglia. E penso davvero con i miei 200 a volte 300 euro in tasca di essere più ricco di loro?
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Giugi mi guarda, non mi giudica. Ma osserva, dall’alto della parete, il mio riflettere. La bidi che sto fumando è finita, la cenere sottilissima è volata via per il vento. Adesso si sta bene, ed ogni giorno, insieme a morire, si cresce un po’ di più, lei lo sa e lo sente.
Mi dice: l’importante è crescere più velocemente di quanto si muore.

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