martedì 16 maggio 2017

Il Garage Indiano_3 Persone e Foreigners


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Merda, solo tre?

In questo momento sto pensando a due cose: vaffanculo è la prima. La seconda è, cosa scriverò dopo aver passato il 25º giorno? Sì, penso più o meno a quello di poterci arrivare, forse peccando di arroganza, ma dopo? Cosa scriverò?

Vaffanculo perché mi si è rotta di nuovo la francescana. Ok, potrebbe sembrare una cosa abbastanza sconcia, ma in realtà è la ciabatta. Penso si chiamino così perché sono quelle che portano i francescani durante tutta la vita monastica. Una volta, quando ero scout, venne a farci visita un frate francescano e sono da lì sempre rimasto colpito: era inverno, un freddo cane, noi eravamo rinchiusi nel prefabbricato del prete vicino casa, e questo frate che parlava del più e del meno senza un minimo di freddo indossando le francescane.

Oggi è la festa della mamma. Comunque qua fa caldo come ieri. Da buon figlioletto stanotte alla mezzanotte indiana, ovvero le otto e mezzo italiane, ho fatto gli auguri alla mamma. Sarebbe stato tutto straordinario se la family non mi avesse chiamato proprio nel momento di maggiore concentrazione durante la giornata: erano le tre di pomeriggio, aria condizionata fissa a 22° quando fuori ne fanno almeno una quarantina, bottiglie di acqua che calano nella mia gola direi quasi intere. Un enigma impossibile da risolvere per il lavoro e sono da un’ora e mezzo fisso davanti al computer. È proprio il momento in cui sta per scattare la scintilla che ti fa sciogliere il bandolo della matassa. Perché da quanto era intricata anche il bandolo doveva esser sciolto. Per poi sciogliere anche tutto il resto. Ma mi sto dilungando lasciamo perdere. Ecco, ero proprio in quel momento, quando i miei mi hanno chiamato: allegri e contenti, non senza i loro problemi, ma spensierati davanti ad un piatto di pasta. C’è da immaginare la scena, 6600 km di distanza, tre ore e mezza di differenza di fuso, e io che impazzisco contro lo schermo del computer perché non reagisce ai miei comandi. Lo annuncio ufficialmente: “mamma mi spiace, non volevo nel giorno della tua festa essere scontroso”. Che poi in realtà non lo sono stato, non sono stato “proprio” scontroso. È che probabilmente sono apparso indifferente. E mi dispiace.

Forse è anche giusto che io abbia poco da scrivere oggi. È domenica, non è che abbia fatto granché. Ma un pensiero mi sento di condividerlo: mentre tornavo verso casa sul risciò, mi sono guardato intorno e per una volta mi è sembrato di farlo con occhi diversi. Non so perché, ma fatto sta che per un istante, soltanto per quel viaggio, gli indiani non mi sono sembrati più indiani. Erano, più che cittadini di un altro universo del quale tutti parlano, che tutti vogliono vedere, che sembra appartenere ad una galassia diametralmente opposta alla nostra, persone. Persone che parlano, scherzano, ridono, si innamorano e giocano.
Amici che si spingono e vecchietti che, giocando a carte, ricordano dei tempi che furono: non erano indiani. Erano vecchietti. Erano amici, erano persone. Non so se si capisce quello che voglio dire. E quindi chi ha orecchie per intendere…

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Discorso nonsense numero 426 (della giornata, nella mia mente, non ce la faccio a scriverli tutti):

Anche l'altro giorno quando chiedevano ad una trasmissione radio che ormai sento più o meno da quando sono nato, la mattina sulla seconda emittente nazionale italiana, dalle otto alle 10, il ruggito del coniglio, Dose e Presta chiedevano se facesse tristezza a quelli che erano lì, quelli che stavano assistendo alla trasmissione insomma, se facesse tristezza loro cenare da soli al ristorante. Alcuni hanno detto no perché è un momento mio, un momento di relax. Altri hanno detto di sì. Così ecco adesso voglio dire la mia: al quarto pasto che faccio completamente da solo posso dire che fa veramente tristezza mangiare in solitudine, anche se mangiando veramente molto bene. Piccantino, ma non fastidioso, con una salsina che smorza. Per la seconda sera di fila.

Come succederà per le prossime 17 sere. A mangiare in questa dependance del forte di Jodhpur, che sostanzialmente farebbe parte di una classica esperienza “da sogno”? Ho paura che da qui a poco questo sogno non sia più tale, fatto di candele sui tavoli, fatto di due ragazze che sono sedute a tavola accanto che scherzano e ridono, due camerieri che arrivano sempre quando hai bisogno, basta che tu li guardi e loro arrivano. Il forte illuminato del Mehrangarh accanto a te, con i bastioni imponenti sopra le rocce che sembrano non aver la forza di reggerli e che invece da centinaia di anni sono lì. Un venticello leggero che ti accarezza il volto, e la città blu, dall'altra parte, la città dei bramini detta Brahampuri, la parte vecchia di Jodhpur. Una musica di festa in lontananza. Le due ragazze ridono. La musica mi fa pensare che forse questa città pulluli di una vita che non è quella che si deve svolgere lungo la strada la notte soltanto per il caldo, ma un’altra vita, una “notturna” sulle terrazze e dentro gli anfratti nei locali di questa città. Vita della quale forse non voglio o non posso fare parte. Non voglio perché devo essere lucido dai bagordi della sera: lucido per pensare a ciò che devo fare, lucido per concepire nuove idee, per concentrarmi sulle vecchie. E d'altra parte non ci posso partecipare, perché non sono nato qui, non sono come loro. Sembra alle volte un po' un'umanità diversa. Con le stesse emozioni, gli stessi sorrisi. Le ragazze davanti a me stanno al telefonino, come fanno i ragazzi anche dalle “nostre parti”.

Forse non posso essere incluso in tutto ciò anche perché si parla solo e soltanto inglese. Ecco, forse questa è una delle cose per la quale non posso essere come loro: dalla nascita parlano inglese, è una prima lingua per loro, mentre io faccio ancora fatica, nonostante capisca e riesca a spiegarmi (quasi sempre) con facilità. Ma è faticoso, molto. Poi, per esser franco, nonostante siano esattamente come noi dentro, l'aspetto esteriore fa sì che il loro non mi vedano come “uno di noi”. Prima ero a prendere una limonata sopra allo Stepwell Cafè, un bar restrutturato, su un pozzo che è diventato uno dei fulcri della Città Vecchia. Ero lì e bevevo una cosa da solo all'ultimo piano e sono arrivati su due indiani. Mi hanno guardato e si sono detti: c'è uno straniero, un “foreigner”, stiamo giù.

Che impressione. Io vedo loro persone e loro vedono me foreigner. La cosa mi ha un po' atterrito.

D'un tratto, mentre penso alla parola “atterrito” si spengono tutte le luci del forte. Vorrà dire qualcosa?

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