sabato 20 maggio 2017

Il Garage Indiano_7 L'ospite è Dio


Inizierò scopiazzando (perché lo scimmiottare secondo me ha ancora un po’ di dignità) Terzani, ma un Terzani al contrario:

Dissi ad un Bramino:
un giorno, ero ad Ahmedabad, e non riesco a capirne il perché, ma quando chiesi spiegazione di dove fosse un posto ad una persona qualsiasi, uno che non avevo mai visto prima e che era seduto, tranquillo, a prendere un chai, il tè indiano, lui si è alzato, e sorridendo mi ha detto: ti ci porto io! Continuavo a ripetere che non volevo disturbare, non importava, in qualche modo ci sarei arrivato. Ma, come dice un mio amico, tra un dillo e un dallo, siamo arrivati a destinazione. Allora gli ho chiesto: ma perché hai perso tempo a portarmi fin qua? E lui, sempre sorridendo, mi ha risposto così:
l’ospite è come Dio.

Il bramino al quale stavo parlando è rimasto in silenzio per qualche momento, guardandomi, conoscendo la risposta ma sapendo che, aspettando qualche secondo in più, sarebbe penetrata ancor più a fondo dentro di me.

È un’antica legge della nostra religione, all’inizio era scritta in sanscrito. Erano talmente simili le parole “ospite” e “Dio”, che nella frase scritta si confondevano: l’ospite è come Dio, Dio è come l’ospite. Ma che differenza può fare?
Per lavoro sono entrato in tante case oggi. Non ricordo neanche più, a quest’ora tarda, quante. Diciamo tra le 15 e 20 case diverse, in posti diversi della città. Alcune più ospitali, altre meno. Ma in una in particolare ho passato più tempo: era una vecchia casa nella zona dei bramini, poco distante dalla casa del vecchio sociologo. Per essere precisi era proprio la casa accanto. Ero andato lì per cercare di capire come fosse cambiata nel tempo la casa, quali pareti fossero state tirate su, quali colonne fossero state buttate giù. Il babbo, 32 anni, la mamma, di poco più giovane e due bambine straordinarie. La più piccola ha compiuto da qualche giorno un anno e mi sorride. Già ieri ero passato da loro per chiedere se potevo disturbarli e più che disturbati mi sono parsi contenti di avermi in casa. Avevo il blocco degli appunti in mano e i miei strumenti di misurazione, ma l’uomo di casa, Nanil, ci teneva a rendermi partecipe che quella casa era loro da tre generazioni, farmi capire quali pareti erano state buttate giù e quali invece erano state create da zero. E mi viene da pensare: sarei io così disponibile con un estraneo, proveniente dall’altra parte del mondo, all’arrivo a casa mia, a Firenze: suona il mio campanello e mi chiede, posso entrare che faccio due misure alla casa? Sono uno studente da un altro continente, vi do fastidio?
Il minimo che chiunque di noi avrebbe potuto chiedere sarebbe stato un documento dell’Università, una prova del fatto che sia vero quello che dice. Invece Nanil, dopo qualche minuto mi ha chiesto se volevo un tè, insieme alla moglie sono rimasti contenti del fatto che volessi un tè, tipico, di Jodhpur. Ho tenuto in braccio le loro bambine, Nanil si è anche permesso di darmi una pacca sulla spalla, certificato del mio essere entrato in famiglia. Mentre andavo via mi hanno invitato a pranzo, ho dovuto rifiutare. Ma in realtà, dentro di me sarei anche restato a pranzo. Non avessi saputo che comunque sarei stato male qualsiasi cosa mi avessero dato da mangiare. Ero seduto appena fuori casa loro per rimettermi le scarpe e Nanil mi ha detto, in un inglese biascicato del quale si era scusato ormai mille volte,

questa è casa tua, quando torni a Jodhpur questa porta per te e tua moglie è sempre aperta. È un piacere per noi se torni. Tanto.

Li ho salutati con un ciao, un ciao italiano, che non è un arrivederci formale o un addio conclusivo. È difficilissimo spiegare determinate situazioni, emozioni così forti. Che poi, in realtà, quando entri in casa loro, ti rendi conto che non hanno niente. Ti rendi conto che quel poco che hanno, comunque, cercano di donartelo. Te ne rendi conto, ma non lo capisci. Penso che siamo nati in una società dai valori sballati, non più direzionati verso quello che è il naturale umano, il rispetto per la vita, l’accoglienza. Mi fa sempre arrabbiare il pensiero che stiamo perdendo lentamente ma continuamente il senso dell’accoglienza. Possiamo parlare del cardinal Bertone, e delle sue decine di centinaia di metri quadri coperti e riscaldati, ma vuoti, che potrebbero accogliere tante persone, che invece vanno a morire per strada di freddo la notte d’inverno. Potremmo parlare dei barconi, di quelle povere persone che lasciano la propria terra in guerra cercando un futuro migliore, e noi che sentiamo la notizia sullo schermo del gelataio col cono in mano e restiamo infastiditi dal fatto che l’Europa non ci aiuti. Facessimo una sola azione buona al giorno, ognuno di noi, e non sto parlando di dedicarci la vita, ma di una, solo un’azione al giorno, qualcosa cambierebbe. Alessandra, l’amica del mio primo viaggio in India, era ad Ahmedabad già da un mese e più quando io arrivai. Qualche giorno dopo il mio atterraggio camminavamo per strada verso l’albergo: sull’angolo dello Stadium Circle abitava una famiglia. Abitava per la strada, con qualche coperta stesa sul marciapiede, un po’ d’acqua da bere e nessun’acqua per lavarsi. Figuriamoci avere qualcosa da mangiare. Alessandra continuava tutti i giorni a portare loro qualcosa da mettere sotto i denti.
Ormai è parecchio che ti vedo portare qualcosa queste persone, ogni giorno. Ma cosa vuoi che cambi? Tanto quando vai via continuano a stare così.

Se ogni giorno, ognuno, nel mondo, facesse una sola azione buona per qualcun altro, al mondo staremmo tutti meglio.

Sacrosante parole che ancora oggi rimangono scolpite dentro di me. Per questo porto sempre dei pacchetti di biscotti nello zaino, e mi potete dire, ma sono soltanto dei biscotti! Cosa vuoi che cambi?

L’espressione sul volto di un bambino.

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