giovedì 26 luglio 2012

Namastè


Namastè. Non è solo una parola. E' una benedizione, un saluto formale, un augurio, qui in India. Racchiude una infinità di significati. Poche parole nella nostra lingua, piena di complicazioni formali (anche giuste) e doppi sensi, hanno un condensato così grande di senso al loro interno. Una delle poche parole che realmente ha la capacità di buttarci in crisi è quella che stentiamo a capire anche nei momenti in cui è più chiara al mostro animo: amore. Se soltanto una parola a noi distrugge le certezze e intriga il cuore, basti pensare che tutto qua ha almeno due significati. Spesso uno legato al mondo terreno e uno al mondo ideale. Un po' come nel mondo dell'agricoltura ogni azione corrisponde ad una reazione nel tempo, così una parola ne sottintende tante altre, che arrivano al cuore soltanto dopo una lenta maturazione.

La città è bellissima, ma se non viene vissuta non viene capita. Ancora non la capisco infatti, ma perlomeno adesso ne ho la coscienza.

Prima di partire pensavo che la cosa più eccitante e stravagante fosse l'estremo disordine per strada, con risciò che saettano verso mete sconosciute, centinaia di motorini che svicolano tra macchine e pedoni, che non temono di essere investiti, tanto è fluido lo svolgersi del tutto. Quando sono arrivato in macchina alla Guest House, pensavo di restar secco ad ogni incrocio. Segnalano la posizione col clacson e quando non c'è nessuno a cui segnalare la posizione, suonano comunque un motivetto col clacson, quasi come facesse loro compagnia. Mi era stato detto che, se si deve girare in macchina non è pensabile di noleggiarne una senza autista. Ora capisco perchè. Sembra quasi che i napoletani abbiano imparato dagli indiani a guidare, e non devono essere stati neanche troppo presenti a lezione. Sono dei maestri della schivata.

Adesso però capisco che la cosa più impressionante sono le persone. Le persone che salutano, anche se non ti conoscono. Le persone che ringraziano se fai loro una fotografia. Le persone che ti invitano a casa loro a mangiare. Le persone ricche, perchè non ti privano di nulla. Le persone povere, perchè quando regali loro un pezzo di pane sono veramente contente, ti ringraziano per giorni. Le persone belle, perchè non se la tirano. Le persone brutte, perchè non si nascondono. Quelle sane, perchè non fanno differenze. Quelle malate, perchè non si vergognano.
Un unico grande corpo che si muove.


lunedì 23 luglio 2012

Giorno 0


Dopo aver viaggiato con l'aereo per tanti anni, comunque posso dire che ci sono ancora due momenti del decollo che non riescono a lasciarmi indifferente.

Il primo, quasi subito dopo la partenza. Quell'istante in cui no si è troppo lontani da non riuscire a distinguere le persone per strada, ne troppo vicini da capire cosa stanno facendo. Li vedi là, che si muovono, gli uni gli altri senza alcuna differenza sulla strada, in mezzo ad un campo, in un parcheggio. L'enorme modellino, in questo caso di Firenze, si perde sotto ai miei piedi, prima toccando apparentemente tutti i punti dell'orizzonte davanti a me (quell'orizzonte permesso dall'oblò, sempre, perennemente, posizionato sull'ala), poi rimpicciolendosi. Mentre mi perdo nella ricerca di particolari, la mia città diventa ridicolmente piccola, in quell'ora in cui il sole riduce l'ombra a una linea a 45 gradi, trasformando la prospettiva in una assonometria senza profondità. Ma tutta questa apparente fredda rappresentazione in un attimo mi rapisce il cuore, quando appare il mio Duomo, la mia stazione, i miei quartieri, la mia strada di casa. E, per un momento, nella confusione cromatica dei tetti tutti apparentemente uguali nel rossore generale, saluto casa mia. La mia famiglia, la mia ragazza che è là, vicina, a studiare. Capisco in un attimo che il mio cuore, o almeno una grande fetta di esso, resterà lì con loro.

Il secondo stimolo, il secondo impulso che mi è donato dal varcare questa soglia gravitazionale è racchiuso in un solo, rapidissimo istante, nel quale ci si rende realmente conto del decollo. Non è, come si potrebbe supporre, il momento dello stacco definitivo dell'ultima ruota del carrello dalla pista di cemento. E' una sensazione che prende alla testa, non più al cuore, quando varchi la soglia tra terra e cielo. Come se avvenisse un vero e proprio "passaggio di consegna". Come se due regni, che non si espandono verso l'orizzonte, bensì trasversalmente ad esso, si stessero perennemente combattendo le nuvole di giorno e le stelle la notte, con la luna ed il sole che si danno il cambio, nell'arbitrio dell'eterna sfida. Nell'istante di interregno ogni corpo viene invaso da una luce sovrannaturale, che solo a coloro che ripongono attenzione è dato di vedere. Verde blu e viola per un solo istante dominano l'orizzonte limpido e, diretti dal sole, accompagnano in un coro maestoso colui che decide di migrare da un regno all'altro, attento, restandogli sempre nella mente, tranquillizzandolo, nel cammino sconosciuto dell'altitudine.

Quanto si nota che, oltre al succo di mela, servono anche il vino sull'aereo?

Ed ora qui, Francoforte, a riportare pensieri scritti sul sacchetto per le emergenze rubato all'aereo. Il pensiero non in avanti a ciò che ci sarà domani. Quanto in dietro, a ciò che è rimasto a casa.
Vi penso. Tutti. E vi immagino felicemente, spensieratamente, ognuno nel suo.



giovedì 12 luglio 2012

Fiches, Every teardrop is a Waterfall




Eccola, è ufficialmente arrivata... non pensavo sarebbe arrivata così d'improvviso, senza modo di capire neanche un attimo prima. La tristezza, la voglia di piangere. È bastato un nonnulla. Una telefonata, sentire una persona cara a rendersi conto che l'ultima volta che l'hai vista era la volta in cui l'hai salutata per due mesi. Te ne rendi conto soltanto quando la senti a telefono e capisci che non la rivedrai per tanto tempo. 

Every teardrop is a waterfall dei Coldplay sembrava fosse chiamata alla presenza proprio nel momento in cui ho riattaccato il telefono. Lasciare le persone che sono più vicine non è facile. Chiaramente parti per poi tornare. Ma così lontano, per così tanto tempo non sei mai stato. Che si spezza la voce nel dire "un bacione, tanto ci sentiamo presto".

Poi pensi che è un mondo incredibile: chi se lo sarebbe immaginato l'anno scorso che saresti dovuto partire per due mesi andando in India.

India dove tua mamma sogna da anni di andare e sei arrivato ad immaginartela quasi in modo tangibile, col dispiacere di non poterci portare anche lei, con il timore di portarle a casa una delusione?

India dove chiunque sia stato che tu abbia incontrato ti dice come prima cosa "attento".

India tanto immaginata e mai realmente compresa. 

Forse perché non c'è modo di capirla se non ci vivi. Ho voglia di capirla. Non è che io abbia paura a vivere là: come dice la nonna di Alessandra "se vivono in 1 miliardo penso che non faccia differenza uno in più o uno in meno". Ecco, il pensiero di partire, quello mi terrorizza. È chiaro che comunque anche qui i miei amici, la mia famiglia, sicuramente vivono anche senza di me (probabilmente qualcuno si leva un peso!). Ma in me la paura rimane.
Probabilmente più che paura è angoscia. La paura è istantanea, momentanea, si risolve in un attimo: hai paura di un qualcosa, anche se non sai che cos'è hai paura perché altri ti hanno detto che devi aver paura. Meglio aver paura che essere angosciati. Si è angosciati quando non ci si rende conto neanche se si deve temere qualcosa: è un po' un salto nell'ignoto. Non è paura quella del giocatore d'azzardo. È angoscia perché non conosce il numero in uscita. La paura nella sua mente è limitata, in qualche modo calcolata nel numero delle fiches che egli ha puntato sul rosso, sul nero.

Quella la perdita massima. L'angoscia sta nella vincita, nella speranza della vincita, nell'ossessione della vincita. 
Probabilmente dovrebbe pensare che non ha niente da perdere, ma non è così. O forse sì? Mi posso permettere quello che sto puntando?

Bello spunto di riflessione.

venerdì 6 luglio 2012

Luglio (sugli intellettuali nel caldo)

Fingersi e setirsi in qualche modo (superbo) intellettualoidi nel pesare il linguaggio, ha come fine unico -travisato- di boriarsi. Travisato quando in realtá il fine più probabile è la ex-posizione o la trans-missione (trova la parola come termine medio) di un concetto. La rete del discorso diventa gomitolo informe e la fatica non vale più l'oggetto cogitato. La probabile dis-abitudine (un tempo si sbagliava chiamandola tale, è una continua scoperta) alla lettura porta sempre più alla lettera, dove tanti credono di trovare una giustificazuone alla mancanza di concetto. Lo strumento di una volta diventa, nell'esercizio di stile -quello borioso, s'intende- oggetto di se stesso. La mente non deve mai perdere la luciditá dell'obiettivo e una accurata regolazione dell'obbiettivo (stavolta strumento) analitico dell'oggetto. La parola, l'atto, nella previsione del suo compimento, deve purificarsi da questo appesantimento che, tende infine a svuotarsi di parole/azioni e riempirsi di parlato/gesticolante.  Il più delle volte non si riesce a trovare giustificazione nella perdita -alla fine anche- di se stessi nell'abbandono a questa tentazione. Il continuo pesarsi delle parole -ma ancor più delle azioni- ci slega dal naturale e non diventa che, spesso inutile perchè vana, comparazione del nostro, allo strumento altrui. Si ritrova quindi una palese mancanza di questa imitazione come esercizio pregiato, che diviene illusiva beltà, soltanto per se stessi: lo strumento è naturalmente diverso in base all'utente utilizzante, per forza, intensitá, leggerezza applicati; ed è chiaro che nella naturalezza stessa dell singolo si ritrova l'utilizzo (pratico), di conseguenza la metafisica del fare, che, più oscura, profonda, affascinante, intimamente erotica, si trova più difficile accettare.