lunedì 15 maggio 2017

Il Garage Indiano_2 Giugi



Secondo me, la mia situazione psicofisica sta lentamente deteriorando. Sono le 22:24 minuti del primo giorno del tutto indiano e mi trovo inspiegabilmente a parlare con un geco che cammina sulla parete bianca del forte di Jodhpur. Un po’ per scherzo un po’ per noia va a finire che inizio a chiamarlo Giugi.

Non stavano scherzando all'aeroporto di Delhi quando parlavano “della città più calda dell’India”. Ma andiamo avanti con ordine: dormito pochissimo nell'aeroporto della capitale. Hai presente quando succede che, nonostante lo stress che hai addosso, per la paura di perdere il volo, sei talmente stanco che quella poltroncina che scimmiotta una Chaise Longue sembra un talamo nuziale tra i più invitanti. Quindi ti rassegni, dopo 10 minuti di tentativi riesci a settare correttamente il tuo cellulare perché ti svegli un’ora prima del boarding (un’ora prima sempre per lo stress). E non è cosa nuova o inconsueta che capiti la famiglia indiana composta da cinque donne delle quali la più giovane ha 25 anni ed un uomo obeso che ti spiazzano intorno. La nonna della famiglia inizia a dettare le regole della sopravvivenza in aeroporto: nonostante io non capisca cosa dica ero sicuro che stava dando le raccomandazioni che qualsiasi nonna avrebbe dato a figli e nipoti.
Non ti allontanare.
Se vai in bagno fai veloce e torna subito.

(Nel frattempo Giugi si sposta per tutta la stanza, bravona, occupa i tuoi spazi).

Insomma dicevo che la cosa fastidiosa non era tanto la qualità della nozione ma la quantità e il volume utilizzato. Probabilmente gli indiani nascono con una sordità che acquisiscono direttamente nell’utero materno. Si spiegherebbero tante vicissitudini del loro normale vivere: clacson sempre premuto; volume della voce sempre altissimo; segnali acustici stradali, tra i quali anche il fischietto dei vigili che farebbero tornare l’udito ad un sordo per perderlo nuovamente dopo un istante di DRIIN. Quindi questa vecchia stava urlando accanto a me supino sulla Chaise Longue che si era dimostrata inspiegabilmente scomoda. Nonostante la scomodità però stavo per dormire. Prima reazione, alzata della visiera del berretto e sguardo agghiacciante verso la vecchia. Effetto: silenzio di lei per 12 secondi contati. Dopo un’altra caciara di qualche minuto mi alzo lancio il berretto sul divano, lo prendo con due mani e lo sposto 5 metri più avanti. Guardo tutta la famiglia per 10 secondi, loro impauriti cercano di sfuggire il mio sguardo di ghiaccio. Stavolta guadagnato la bellezza di tre minuti e 45 + un abbassamento del volume per tutto il resto della conversazione. Riesco quindi a dormire dalle tre di notte fino alle sette. Per farla breve dormo anche tutto il viaggio in aereo verso Jodhpur, ma tutto ciò non fa che accentuare l’effetto sulla mia pelle e, in fondo, anche nel mio animo europeo del phon nel quale mi sono trovato una volta uscito dall'aereo.

42 gradi. Zero percento di umidità. Probabilmente il limite massimo sopportabile dall'essere umano.
Nonostante adesso facciano 36 gradi, ho il sospetto che anche Giugi stia crollando. Si muove senza una meta cercando una superficie più fresca che non troverà mai. Un po’ come Giugi anche io ho cercato, subito sceso dall'aereo, conforto al forte di Jodhpur.

Prima di continuare però penso sia giusto fare una precisazione. Non descriverò l’India per come l’hanno descritta già molti altri e molto meglio prima di me. Ho intenzione, con queste parole, di cercare e descrivere soltanto quegli attimi, quelle sensazioni, quelle “cose” che affascinano me, alla sesta volta che torno qua. Anche perché in fondo penso che le esperienze, ma soprattutto quella indiana, un paese così diverso, così lontano dal nostro, sia quasi impossibile da descriverlo a parole. Ci sono componenti come gli odori, il puzzo di merda, quello di fritto, l’incenso inebriante e l’odore del bambù appena tagliato che con difficoltà possono essere spiegati e descritti nella velocità e nella frequenza con cui si palesano al naso in questa terra. Come anche trovo impossibile provare a spiegare la varietà e la fragranza dei colori che contiene questa terra, nelle sue mille variazioni di giallo ocra, nelle sue centinaia di rossi e di blu. È in tutto ciò che questo comporta ai miei occhi ogni volta che ci sono immerso: stupore, spaesamento, meraviglia, confusione, e molte altre circostanze e particolari che se non avessi fatto la premessa che ho fatto (molti altri l’hanno già fatto prima e meglio di me) mi toccherebbe di continuare a descrivere nella loro interezza. Una cosa però è necessario dirla: nonostante sia la sesta volta che torno in India, per vedere gli stessi posti, per sentire gli stessi odori e guardare gli stessi colori, ogni volta mi sembra di non esserci mai stato. Auto citando uno dei tanti diari che ho provato a scrivere in passato riguardo a queste esperienze posso dichiarare una grande verità: “l’India la senti pulsare”. Le strade come arterie, i vicoli come vene, l’intero corpo in crescita continua come una persona, un’adolescente, nel pieno dello sviluppo fisico. Ti succede che quando poi non lo rivedi per un mese tuo cugino, tuo nipote, per me mio fratello, sembra un’altra persona! Poi in realtà ti rendi conto che proprio lui, è lui che sta raffinando il suo essere. Quindi mi viene da pensare una banalità: probabilmente non è l’India che cambia, non sono le persone, le case, le strade, i vicoli, ma è il modo che ho io di guardarli. Chiaramente l’India sta cambiando, altrimenti non sarei qua a cercare di preservare un po’ di quella magia che loro hanno e che da noi è così tanto difficile trovare. La stanno distruggendo? La stanno nascondendo? Oppure andrà ad evolversi come successo ormai da tante altre parti fino a diventare quel commento, quella foto fatta milioni di volte e postata sul social network di turno?

Giugi è scomparsa. Mi guardo intorno ma non la vedo. Sono quasi sicuro che riapparirà quando meno me l’aspetto per farmi prendere un colpo. Birichina.

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