venerdì 19 maggio 2017

Il Garage Indiano_6 Il Senso del Meglio


Ieri sera volevo, ad un certo punto, scrivere testamento. E a ragion veduta, visto che stamattina ho trovato un pezzo di vetro grosso quanto un braccio in mezzo al giardino, spezzato da una finestra. Ma, come sempre, andiamo con ordine. Cosa che, sto mettendo sempre più a fuoco, mi riesce pochissimo.

Dopo aver finito di lavorare ieri sera salivo verso il forte dall’antica porta “sul retro”. È una salita sfiancante. A contarli bene saranno un paio di chilometri e più dritti verso l’alto dei cieli, con un’ombra minima, che a maggio, ovvero la stagione più calda indiana, significano doccia di sudore e necessità di lavarsi immediatamente. Sfiancato dalla cosa quindi corro in camera a lavarmi e apro la finestra del bagno per far uscire un po’ di vapore della doccia. Il che sembra un particolare inutile, ma non lo è.

Fresco come una rosa quindi mi avvio verso il ristorante interno al forte a metà della salita fatta prima. Il Chokelaw Bagh è una specie di dependance dal ruolo incerto, ma dalla straordinaria terrazza. Visto che sono un signore, e su questo non possiamo dire niente, la sera mangio lì: alla mia sinistra l’imponente, rosso, forte di Jodhpur e alla mia destra la magica, brulicante, città blu. Dopo una mezz’oretta nella quale me la prendo completamente con calma, arriva una nebbia fittissima. Sulla terrazza siamo io, tre ragazzi che lavorano al forte come restauratori di dipinti, e una coppia seduta al tavolo accanto. Uno dei ragazzi mi dice:

lo sento nello spirito dell’aria, arriva la pioggia.
Sorride.

Dopo un quarto d’ora i bicchieri di vetro volavano su tutta la terrazza, ai due camerieri sono volati via i turbanti ed anche gli ospiti, con il tempo messo così, hanno deciso di andarsene via. Per ora era solo vento. Quel chilometro che mi separava dalla camera mi sembrò infinito: una bora calda, desertica, buona soltanto ad alzare la polvere e la sabbia nei nostri occhi, ci soffiava contro lungo tutto il percorso. Semmai vi succedesse, un consiglio: non saltate. È il primo passo verso il decollo.
La mia camera, come ho già detto è situata sul punto più alto del forte. Avevo paura che si staccasse dal basamento e prendesse il volo, un po’ come la casetta che schiaccia la strega dell’ovest (o dell’est? Questa ignoranza la pagherò cara). La pioggia che, grazie a Dio, è arrivata soltanto una volta entrato in camera, avevo paura che sfondasse i vetri delle finestre (come appunto è successo per quelle di un bagno accanto, meno male era una camera vuota). Salta la luce e finisco Internet nel telefono. Non c’è connessione e non posso aprire la porta. L’acqua inizia a penetrare dalle fessure delle finestre. Sotto una finestra c’è una presa elettrica e mi rendo conto che l’acqua è arrivata fin lì soltanto quando hi i piedi nudi nella pozza sul pavimento. Meno male la luce era già saltata. Spengo tutti gli interruttori e tutte le spine per evitare altri danni, preparo uno zaino d’emergenza per scappare in mezzo alla pioggia nell’eventualità che una delle finestre ceda all’improvviso. Trauma. L’ultimo messaggio che mando dal telefono è ad Irene: sappi che sei stata il mio ultimo pensiero.

La situazione non cambia per circa un’ora e proprio come ci vogliono sette minuti al cervello per escludere il senso dell’odorato in presenza di fortissimi profumi o puzzi persistenti, anche io iniziai a non sentire più niente intorno a me nonostante le finestre sbattessero dal vento e lo scrosciare della pioggia scalfisse le pietre.

E d’un tratto, non so neanche io perché, mi trovo nel forte, in mezzo a una tempesta, senza luce, senza nessuna connessione con l’esterno, tranquillo, con un lumino di candela acceso accanto al letto, a leggere Il Barone Rampante di Italo Calvino.

Ma in fondo non importa trovare un senso a tutte le cose, come dice Vasco, a volte la vita un senso non ce l’ha.

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Non volevo dilungarmi più di tanto, ma non voglio perdere la sensazione che ho avuto stamattina. E non è stata una vera e propria sensazione, o meglio ne è stata la causa: gli occhi di un vecchio bramino che mi guardano e che mi invitano ad entrare in casa sua. Sono stato lì per una mezz’ora buona a parlare con lui. Quarant’anni di insegnamento di sociologia all’università di Jodhpur e adesso scrive. Mi chiede se conosco Osho. Gli vorrei dire che lo conosco soltanto per alcune battute che girano su Internet e che lo ritraggono a dire fesserie divertenti, ma mi limito a dirgli di sì. Mi racconta che un giorno un giornalista andò da Osho e, per la teoria del saggio che quando qualcosa viene dato bisogna anche ricevere qualcosa, dopo le domande del giornalista, Osho gli pose la propria:

Che cosa è meglio?

Il giornalista aspettava il resto della domanda, ma non arrivava.

Che cos’è meglio? Ripeté Osho

non lo so maestro, cosa?

Meglio è semplice.

Quanta verità, ho pensato che “è difficile trovare la strada per il semplice” e l’ho detto al bramino. Si è messo a ridere,

Hai perfettamente ragione, ma ti sbagli: non è difficile, è che ci vuole tempo.

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