mercoledì 17 maggio 2017

Il Garage Indiano_4 Sete


Si, sono 4. 4 al giorno. E mi ha detto Shubham che è il numero corretto. Ma cosa? E chi è sto Shubham? Che in realtà non so neanche se si scriva così. Penso di sì in realtà. Allora, Shubham è un architetto del Forte.
È architetto, per chi non lo sapesse, proprio come me. Soltanto che lui ha 26 anni e io 29. Soltanto che lui è responsabile del restauro di un complesso di edifici del Maharaja. Soltanto che si è sposato a dicembre scorso. Soltanto che… è indiano. Devo riconoscere, non un indiano stupido, un indiano sveglio. Alle volte penso che, se sei indiano, e sei abbastanza sveglio, ci sono enormi possibilità che ti aspettano. Chiaramente, me l’ha detto anche lui che il peso e danno alle sue considerazioni per ora è abbastanza “calmierato”. Ma soltanto perché è giovane. Tuttavia il primo responsabile di una serie di progetti qua: se provo a pensare alle stesse opportunità in Italia, a chi vengono date, da chi vengono date e riguardo a cosa, non riesco proprio a farmi venire alla mente nessun caso neanche lontanamente simile. Stamattina l’ho accompagnato sul cantiere del suo progetto. Una volta lì mi sono messo a seguire le documentazioni sulla creazione dei materiali da costruzione e sul lavoro vero e proprio in cantiere per le mie ricerche. Dopo un po’ è tornato da me e, come se non volesse dir niente, se n’è uscito con:

Ho appena chiamato i bulldozer per oggi pomeriggio, devono buttare giù una parte di quell’edificio, vedi? Quello laggiù, dietro. Vado a fare due foto per documentare la situazione attuale e poi andiamo a mangiare, ok?

Ecco. Bulldozer. Demolizioni decise in una mattinata. Documentazione fotografica probabilmente approssimativa. Tutto ciò mi ha portato a due pensieri: un’invidia per la possibilità decisionale che è data questo ragazzo sul progetto. Una fiducia sconfinata sostanzialmente. Ma d’altra parte mi sono anche reso conto del problema che questo comporta. Quella che lui ha chiamato la “situazione attuale”, “quell’edificio e la sua parte dietro”, non sono altro che abitazioni di poveracci. In realtà non sono abitazioni temporanee, ma sono costruite con mattoni che si appoggiano a quella preesistente, interna al progetto di Shubahm per il maragià. E non c’è nessun tipo di pensiero laterale verso quelle persone. Nessun tipo di tutela, arrivano i bulldozer. Non c’è stato neanche nell’anticamera del cervello il pensiero di dislocarli da qualche altra parte. Quel terreno è mio. Non importa che io ne abbia migliaia di altri o meno, è mio. E quindi bulldozer, questa parola mia scandalizzato e mi è rimasta nella testa fino ad adesso.
Hanno chiamato le guardie per oggi pomeriggio. Non so quando inizieranno e non so se prenderò parte. Distrattamente ho detto a Shubham che non sarei andato perché avevo già preso tutto ciò che mi serviva. Ma probabilmente non ci andrò per non vedere quello. Persone disperate fermate dalle guardie mentre con dei bulldozer la loro casa viene buttata giù. Spero non lo facciano davvero. Spero che buttino giù soltanto degli edifici confinanti, non abitati, in cattivo stato. Delle “rimesse” per quelle persone.
Lo spero davvero. Non penso che avrò la forza di andare a vedere. E fu mattina e fu pomeriggio del quarto giorno. Le 14.39 del quarto giorno. E tutto può succedere questo pomeriggio.

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Sono stato a far visita ad Imran, sulla sua terrazza, in cima alla sua guest house. Baba Haveli Guest House. Per chi non l’ha mai sentita nominare, si fidi, è una vera casa indiana. Nonostante chi c'è stato in passato possa anche dire che è un posto da poveracci. Ecco, non fidatevi mai di chi dice una cosa del genere. Quella lì è una vera e propria dimora dove poter provare le sensazioni, i sapori, le amicizie indiane più vere. Almeno per me. Imran è quello che posso chiamare “il mio amico indiano”. Lo conosco da così tanto tempo che non ricordo la quantità di cose che abbiamo fatto insieme. Senza dilungarmi più di tanto vi dirò che ero lì, sulla terrazza, di fronte al forte di Jodhpur, qualche passo sopra tutto il resto della Città Vecchia. Quando sono entrato in casa sua madre era sdraiato sul divano e suo fratello, seduto ai suoi piedi, mi ha salutato come se fossi uno di famiglia. In un secondo è arrivato anche lui e mi ha detto:
ci vediamo tra 10 minuti sulla terrazza, compro due cose al mercato e arrivo.
In un istante ero sulla terrazza della guest House. Mi guardo intorno e la mia attenzione viene catturata dai vasi appoggiati sul balcone: terra secca. E la mia mente inizia a vagare nei suoi soliti o insoliti meandri: come fa questa, così inospitale e così calda, ad essere una terra in cui l’uomo vive? È troppo ostica: oggi nel momento di piena hanno fatto addirittura 43°. Perché in un passato remoto una popolazione si stabilì in una terra così arida e così fastidiosamente calda? Pensandoci ripensandoci non riesco ad arrivare ad una soluzione di questo quesito. Tuttavia un motivo ci deve essere, guardando il forte e pensando alla sua magnificenza non può non esserci un motivo! Ma al di là del forte si staglia infinito il deserto che porta al Pakistan. Sono sicuro che un perché ci sia. Non posso pensare che sia solo dovuto al fatto che le persone da qua non si possano spostare, lasciando perdere la bellezza che loro stessi creano. Perché? Perché proprio qui? Un nuovo quesito, forse inutile, da annoverare tra i tanti altri che mi vengono in mente durante la giornata.

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Mi sono fatto lasciare dal tuc tuc un po’ prima della porta storica del forte, quella che adesso è diventata la porta “sul retro”, Fateh Pol. È l’unica porta dalla quale possa entrare la sera per tornare a dormire là. Senza nessun motivo ho deciso di girare verso sinistra e andare per qualche minuto, giusto per farsi salire la fame, a contemplare il buio del lago artificiale accanto al forte. Un posto straordinario, di una bellezza quasi magica.
C’era un ragazzo, seduto sugli scalini che scendono fino ad entrare in acqua, che stava lanciando della pasta di pane a piccoli pezzetti nel lago, penso per dare da mangiare ai pesci. Teneva quella pasta con la mano sinistra e con l’aiuto della destra ne creava un vermicello, un piccolo rotolo. Poi lo spezzettava, ne prendeva delle capocchie, ogni capocchia la divideva con la mano destra in tre piccoli pezzettini che gettava ai pesci con un unico gesto. In realtà, mi resi conto che non stava neanche guardando dove finissero, o che effetto avessero quei tre pezzettini di pasta di pane gettati nel lago. Li gettava e basta. Chiaramente, senza una ragione plausibile, mi metto a sedere accanto a lui. Resto lì per un po’, tanto che arriva anche un altro ragazzo a fare la stessa cosa, ma il suo pezzo di pasta di pane molto più piccolo. Il ragazzo seduto, d’un tratto, ma con massima calma, si gira verso di me e mi passa un pugnello di quella sbobba solida. Dentro di me in realtà, non aspettavo altro che di far parte di questo rito, visto tante volte e da tante parti, ma che non avevo mai adempiuto. Mi metto all’opera, con la mano sinistra tengo il pezzo di pasta di pane e con la destra cerco di spezzettarlo: sembrava facile, ma si attaccava alle dita, era difficile da tenere perché anche i vari pezzettini che spezzetti, quando li metti sulla mano destra tendono a riattaccarsi. Loro lo facevano con una leggerezza e una semplicità sconvolgenti. Piano piano anch’io riesco a lanciare miei primi pezzetti di pane. L’altro ragazzo, quello che aveva poca pasta di pane, finisce e se ne va. Ed io rimango solo, con Jitendra, ho capito qualche minuto dopo che si chiama il ragazzo, e che non parla assolutamente inglese. Io non parlo indi, quindi sembra impossibile la comunicazione.

Però, forse perché qualcosina di indi lo riesco a capire, pian piano una discussione prende vita. In questo momento la mente deve essere libera, mi dice. Non ci devono essere preoccupazioni. Nessuna eccitazione. In seguito, quando mi passa il secondo pugnello, mi chiede di dargli una mano. In realtà c’avevo già messo una decina di minuti a finire quella di prima e la mia prima intenzione era quella di alzarmi e andarmene. Devo ammettere che la sua pasta di pane era veramente tanta, una borsetta, quasi una pochette da donna. Sono rimasto lì seduto, me ne ha dato un altro pezzo ed io, per quanto lentamente riuscissi a snocciolarlo, lo lanciavo costante ai pesci.
Per fortuna o purtroppo quindi, abbiamo iniziato a capirci. Mi aveva chiesto aiuto a finire quella quantità infinita di pasta di pane. Mi spiegò anche che quello che faceva lo faceva per religione, dare la pasta di pane in palline ai pesci era come pregare. Mi ha detto “è per domenica”, e io ho risposto, ma è martedì!
Ma no, è che mi avvantaggio… Lo faccio prima…
Ma lo fai per religione?
Sì.
Ed è stato straordinario come dopo, 20 secondi soltanto, mi abbia chiesto se sono sposato, cosa alquanto normale per gli indiani. Gli ho detto di no, probabilmente è in previsione per un futuro molto prossimo, ma ancora non sono del tutto sposato. Lui invece mi ha detto che ha trent’anni, è sposato e con un bambino.

Se ci ripenso adesso è davvero incredibile. Quante cose ha capito e, sono sicuro, le ho capite davvero. Cioè, mi ha detto proprio quello, non ho “sbagliato” a capire. Addirittura è riuscito a farmi capire, quando mi ha detto che aveva trent’anni, e quando gli ho risposto che io ne ho 29, che lui, nonostante sia più grande di me, sembri molto più piccolo. È straordinario. Vorrei imparare l’indi. O forse mi affascina tanto il fatto di non saperlo, ma capirlo, che mi allontana dal pensiero o dall’obbligo di iscrivermi ad un vero e proprio corso. Sono straordinari, assolutamente e letteralmente “fuori dall’ordine”. È riuscito a spiegarmi che fa il tessitore di sari, qua a Jodhpur. Mi ha chiesto se sono mai stato a Jaisalmer, gli ho risposto di no. Mi ha detto che fa tanto caldo a Jaisalmer.

Oggi, mentre eravamo con Shubham in moto, mentre mi portava via dal forte che sta restaurando, parlavamo dell’incompatibilità delle lingue. Ma quell’incompatibilità che diventava compatibilità soltanto grazie alle persone. Tramite l’espressività, la forza dei gesti. Oggi pomeriggio è stata abbastanza una serata all’insegna della lingua e forse anche un po’ della “inutilità” della lingua senza la "voglia di parlare".
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Mi ero chiaramente perso. 4 sono sì i giorni, ma anche i litri d’acqua necessari per ognuno di essi.

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