venerdì 16 giugno 2017

Il Garage Indiano_15 I ricordi poetici


E fu sera e fu mattina del 18º giorno. Che poi avranno messo prima la sera perché suonava meglio. Potevo iniziare anche così: i giorni di libertà se ne sono andati. Ma finalmente sono anche tornati.
E, come mi succede molto spesso, sono rimasto tremendamente indietro con i quotidiani aggiornamenti dai quali riuscite a capire che sono ancora vivo e vegeto. Ma non cercherò di rimuginare gli eventi passati perché, evidentemente se non ho scritto, non c’era niente su questo livello di coscienza nel quale mi ostino a protrarre, non senza magnum gaudium, i fili di un ragionamento che, un po’ come la carta igienica regina, non hanno né inizio né fine. Tuttavia devo riconoscere che la malinconia si fa sentire molto, quella malinconia provocata essenzialmente dalla solitudine. Forse è stata persino accentuata dal fatto che non abbia scritto, un po’ mi fa sentire a casa questo: molti mi scrivono, in privato oppure sui social e sono grato a tutti perché vi assicuro, come dice Irene, che questa è una prova di resistenza. Qualche giorno fa, in risposta a un messaggio, avevo iniziato a scrivere un commento che però merita più di qualche riga su Facebook.
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Mi ritrovo a scrivere per non sentirmi solo, anche se solo in realtà non lo sono. Forse mi trovo a scrivere per non dimenticare. Ho una memoria corta, troppo, e vivere, e scrivere, mi aiuta a non perdere questo tesoro che sono ricordi flebili, poetici, quelli che alla fine non è che ti rimangano in testa bene, che li scordi o meglio, tende a farlo. Ma perché succede questo? Perché diventano parte di te, diventano parte del tuo subconscio, vengono interiorizzati e vanno a far parte della tua persona nei suoi aspetti più profondi. Ecco, forse anche per paura. Dell’immensità e della diversità alla quale mi trovo di fronte ogni giorno. Probabilmente scrivo per esorcizzarla ma, bada bene, non per estirparmela da dentro.
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Questo era l’inizio di risposta che avevo scritto quel giorno. Lo trovo corretto, ma adesso, che mancano due giorni ad abbandonare questa splendida città, Jodhpur, guardo le cose con occhi un po’ diversi: come nel telefilm Scrubs c’è una straordinaria puntata sull’addio, in cui il protagonista, (occhio che qui c’è uno spoiler) alla fine della puntata si rende conto di guardare le cose che verranno abbandonate da lì a poco, quelle che sei certo non faranno per un bel pezzo più parte della tua vita, forse mai più, e dicevo di guardarle non tanto con nostalgia, ma con simpatia, come a dire “ci sono passato, e se sono diventato ciò che sono e anche grazie a questa esperienza, bella o brutta che sia”. Ed è un po’ così adesso che guardo Jodhpur: sono più che sicuro che farà parte del mio futuro, e ci sono stati alti e bassi in questi giorni: la fatica di essersi dimenticato una finestra aperta quando hai già fatto cinque km nella città blu e per non spendere i 60 cent di risciò che potrebbero portarti almeno fino alle porte del forte, ti fai una sudata epica, maledicendo un po’ come Benigni in Berlinguer ti voglio bene. Oppure quando masnade di bambini ti accerchiano e in qualche maniera ti invadono il cuore. Oggi ad esempio ero lì, seduto subito fuori dalla forza del forte, alle 6:30 di pomeriggio cercando di trovare la forza per andare a un famoso lago accanto alla città che, magari fa anche cacare, però per fare qualcosa di diverso, mi ero messo nella testa di andarci. Provo a chiamare una macchina ma ci avrebbe messo 10 minuti ad arrivare più altri 25 minuti ad arrivare fino al posto dove la strada tocca il lago. Desisto e decido di andare a mangiare in un posto nuovo, finalmente dove fanno i noodles.
A metà del viaggio, passando dall’altra parte della città dei bramini, chiedo all’autista di fermarsi. Non avevo mai visto il quartiere musulmano, dove mi trovavo, e quale giorno migliore di oggi? Che è il primo vero e proprio giorno dell’inizio del Ramadan?
Se volete non sentirvi soli, nella disperazione di un abbandono della speranza, andate lì, dove i bimbi sorridono e i muratori lavorano. Senza mangiare né bere per un giorno intero. Qualche minuto prima delle sette e mezzo. Capirete quanto di bello c’è nel mondo anche non avendo niente.

domenica 11 giugno 2017

Il Garage Indiano_14 Sorridi


Perché non l’avete mangiata? Mi rivolgo alla Giugi band, che stanno tutte qui, a guardarmi, in coro, proprio fuori dalla mia camera, lungo il corridoio che si staglia fino all’ingresso delle scale per scendere giù al forte. Se c’è una cosa che mi fa veramente schifo non sono i serpenti, come Indiana Jones, non sono i ragni, come alcuni miei amici, non sono più le falene, come per me un tempo era: sono le schifosissime bastarde squallide e viscide cavallette. Ma perché, visto che era qui accanto a voi, compagne di Giugi, perché non l’avete mangiata? Esco per fumarmi l’ultima bidi, dopo una serata di relax completo, sento già la stanchezza che si avvicina e compenetra nei miei pensieri la stessa voglia di ieri sera di andare a letto, quando mi si ghiaccia il sangue nelle vene e in quei 20 cm tra me e la porta appena chiusa alle mie spalle ecco che sento il maledetto ronzio. Si alza in volo, il verde, con quelle zampette lunghe e affilate, con quegli occhi spiritati, la peggiore nemica dell’uomo, la cavalletta. Fa un giro intorno a me e io agito le braccia e in qualche maniera diventa un maestro di step sul posto per qualche secondo, finché lei, che non è che abbia più paura di me di quanto io ne ho di lei, e che si è soltanto stancata di stare qui, vola un po’ più in là, al corridoio accanto. Rimprovero tutta la banda ma alla fine capisco che, ok è più grande di voi, forse non ce l’avrei fatta neanche io a mangiarla.
Brutti scherzi della solitudine. Trovarsi a chiacchierare tra sé e sé sulle sorti di una cavalletta che doveva essere mangiata da dei giechi attaccati alle pareti. Dare loro lezioni di stile. L’eccitazione e il brivido mi fanno venire la pelle d’oca con le quali trovo la forza di tornare a scrivere, dopo qualche giorno. Non è che non volessi scrivere, ma se non succede niente ne vale davvero la pena? E mi potreste obiettare, ma come fanno succedere niente? Sei in India! Ma non è proprio questa la cosa straordinaria? La capacità adattativa dell’uomo.
Arrivi in un posto, a migliaia di km di distanza, e sei affascinato talmente stupefatto da tutto ciò che ti succede intorno che non fai altro che vomitare istante dopo istante su di un foglio, per non dimenticarlo, quello che hai dentro. Poi, senza che tu l’abbia chiesto, eccoti a ritrovare una normalità (non senza i dolori della mancanza, della nostalgia, del ricordo e della lontananza), ma che normalità è, o meglio, puoi iniziare a pensare che lo sia. Che in qualche modo lo possa diventare. Per di più, ti piace anche quello che fai, là, lontano. Ti piace a tal punto che sei pronto con tutte le forze a rinnegare quello che stavi facendo prima, quello a cui stavi mirando. Non che poi fosse tanto chiaro o straordinariamente rilucente. E non sto parlando di relazioni interpersonali con le persone che ti stanno a cuore davvero: quelle non smetteranno mai di esserti dentro. Arrivi soltanto “talmente in là nella solitudine che tornare indietro sarebbe doloroso più che andare avanti” (semi citazione shakespeariana della tragedia scozzese, caspita quante ne so, ma questa la uso spesso).
Dicevo che ero quasi pronto per andare a letto, adesso sono le 11:03 di sera, orario straordinario qua per me, soltanto per me, per essere nel mondo dei sogni. Tuttavia la cavalletta ha fatto sì che una botta d’adrenalina pervadesse i miei sensi e facesse sì che io potessi trovare un pretesto per scrivere. Proprio di questo: io adesso sarei già letto da una mezz’ora. Gli orari di Jodhpur sono completamente diversi dai miei. Quelli italiani non c’entrano niente più, ormai. Sono tre ore e mezzo di fuso orario da tutti coloro con cui posso parlare italiano, e Jodhpur resta un’ora e mezzo avanti a me: se io sono pronto ad andare a letto adesso Jodhpur andrà a letto quindi tra un’ora e mezzo, forse. Dico tra un’ora e mezzo perché la città si accende quando io apro la porta di camera per rientrare. Non mi sento più parte dell’una e dell’altra cosa. La città di Jodhpur, quella vera, quella abitata da persone normali, persone che sorridono.

Inciso: Ho letto oggi un articolo illuminante, sempre da tenere a mente: se con il volto sorridi, e sorridi per davvero, il tuo cervello recepisce il movimento dei muscoli del volto come un segno positivo, quindi entra in un circolo vizioso per il quale stai meglio se hai sorriso in precedenza e continui a sorridere nella stessa maniera anche nei momenti a seguire. È una cosa straordinaria. Ho già iniziato a provare a farlo da un paio di giorni, la mattina, quando in realtà non ci sarebbe niente da sorridere perché sono qua, da solo, a 6600 km da casa, non potendo parlare inglese perché non lo sanno, ma cercando di essere inclusivo il più possibile verso i miei “ospiti”. 

Sarà forse per questo che qua ci sto così bene? Forse perché, senza nessun ordine da rispettare o senza alcun fastidio da considerare, le persone sorridono: così, sorrido anch’io; e ci ritroviamo entrambi con il cervello che fluttua nella stessa direzione: quella sì, dell’insicurezza, ma anche quella della certezza di non aver problema nella creazione di un proprio futuro. Ripenso a Humphrey, un ragazzo conosciuto qualche giorno fa: ci siamo visti per la prima volta allo stepwell caffè americano, di New York, la cui famiglia commercia da qualche tempo con l’India nel campo delle stoffe dei tessuti. Che problemi vuoi che abbia? Sempre vestito elegante, sempre dal capello impeccabile. Quali sono e quali saranno le sue mancanze? Ogni pomeriggio si gioca a tennis, ogni mattina fa finta di lavorare, ogni sera esce a bere una cosa e a mangiare in un posto costoso. Ma non sorride. Mai.

Chi sta meglio? Sorridi. Starai meglio te.

mercoledì 7 giugno 2017

Il Garage Indiano_13 Un volo


Che concezione dello spazio deve avere un uccello? Un’aquila, ad esempio, ma anche un piccione? Forse baserà i suoi spostamenti sulla fatica di muoversi da un punto all’altro, forse non si renderà conto della potenza che c’è nel potersi spostare liberamente. Mi viene in mente il Gabbiano Jonathan Lvingston, di Bach. Nasce da una pretesa da nulla, uno scherzo: far dono ad un gabbiano della voglia umana di superare i propri limiti. Straordinario. Assolutamente liberatorio. Con tutte le sfide che poi è costretto a fronteggiare: sociali fisiche, ma soprattutto con se stesso.

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Sono seduto a bere una birra sul punto più alto del forte: da qua si vede l’intera città blu, la città dei bramini. Forse non tutti sanno che in passato i bramini non avevano una grande funzione produttiva per la città, ma fondamentalmente teologica e religiosa. Durante l’anno, sarà dato dal gran numero di divinità indù esistenti (un ragazzo a cena ieri sera mi ha detto che probabilmente non esiste nessuno che conosca tutta la storia della religione indù) o da qualche altro fattore del quale non sono a conoscenza, comunque gli indiani antichi festeggiavano più di 1000 volte un qualche evento religioso durante l’anno. Sono almeno tre festività al giorno: i bramini erano coloro che si occupavano dei templi e delle festività. Raccoglievano offerte che non erano quasi mai in forma di denaro, ma di altri tipi. Erano i prediletti del maragià, che li aiutava con donazioni perché rappresentavano l’aiuto, la porta, il guardiano terreno attraverso il quale imbonirsi gli dei. Questi sono i bramini, questo erano. Oggi è diventata, o meglio è rimasta, una casta, alcuni assolvono alla funzione di un tempo, ormai altri hanno lasciato da parte l’antica funzione. Ma perché blu? Blu perché era facilmente distinguibile, blu perché così le altre caste, meno pure, potevano riconoscere fin da subito una casa di un bramino e non toccarla, per non renderla impura come erano loro. Come ogni tradizione, come dice mio fratello, c’è sempre un fondo di mera necessità storica. Il blu, anche se non ho mai capito il perché, rende l’ambiente interno più fresco. E, sarà per suggestione, ma quando mi trovo nel Brahampuri, quella è la sensazione che sento: freschezza.

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È calato il sole, avevo iniziato questo discorso cercando di tratteggiare un minimo i miei pensieri sulle aquile che viaggiano intorno al forte in questo momento. La situazione adesso è diversa, cani ululano in lontananza, in direzione del deserto. Sotto di me il ristorante dove vado a mangiare tutte le sere, quello del forte, ha acceso le luci e pian piano la città blu che vedo, da quassù, sta prendendo vita: dei viottoli minuscoli che nascono dall’intersezione di una composizione organica del tutto incontrollata si stanno animando della frescura notturna. Non ho mai vissuto questa città, per ora sono sempre stato qua dentro la sera. Il desiderio di uscire è forte, ma fa anche un po’ paura: ogni volta che ci si affaccia verso una nuova esperienza, come potrebbe essere stasera andare in mezzo alla città dei bramini di notte, nasconde un milione di incertezze. Resta al singolo la scelta di gettarsi, un po’ quel tuffo di cui parlavo qualche giorno fa, oppure restare nel custodito. Chiuso tra le mura del forte dove non c’è niente da temere. Niente è detto, la scelta è soltanto qui e adesso, domani però, è sempre da ricordare, potrebbe esser stata un’occasione persa.