domenica 28 maggio 2017

Il Garage Indiano_12 Piove


Ieri sera, dopo il negozio di dolciumi, Schubham è passato a prendermi in macchina e siamo andati a cena.
C’erano lui e sua moglie e un’altra ragazza in macchina. Abbiamo preso una cosa da bere in uno di quei posti indiani che:
non servono alcol,
hanno un menu ridottissimo,
non sono belli,
sono in un punto introvabile della città per chiunque, anche per gli indiani,
hanno quell’aria condizionata fastidiosa che quando esci l’unica cosa che provi è il mal di gola.

A cena invece siamo stati a On The Rocks. Conosco bene quel posto, ci porto sempre gli studenti quando veniamo dall’Italia tutti insieme, si mangia un pollo tandoori veramente molto buono. Di solito però lo ordiniamo poco piccante, ecco, ieri sera, chiaramente, stando con altri indiani, e condividendolo con loro, non potevo sfigurare chiedendo di farlo poco piccante. Oggi mal di pancia fotonico. Ma torniamo a ieri sera: siamo a metà della cena, che hanno servito l’aperitivo e stanno già portando i piatti, la discussione procede tranquilla, e grazie alla birra riesco anche a parlare un inglese dignitoso, quando inizia a piovere.
Una piccola parentesi sul mio inglese: non è soltanto una mia sensazione, sarà capitato anche a voi che con una birra in corpo qualcosa si innesca nel vostro subconscio, qualcosa che disinibisce la paura che abbiamo nella composizione logica delle frasi in un’altra lingua. Ecco, per me la birra quella sera ha fatto proprio questo: il mio inglese era perfetto. Potrei dire shakespeariano, ma forse shakespeariano pareva solo a me. Comunque riuscivo ad esprimermi e a farmi capire molto fluentemente.
Fatto sta che inizia a piovere, come dice Forrest Gump, quella pioggia fitta fitta che ti inzuppa, se ricordo bene la citazione (una persona normale sarebbe andata a cercare la citazione su Internet, i punti sono due: (<anche questi) uno, non sono una persona normale, non so se ve ne siete resi conto dopo aver letto 12 capitoli di questa cosa; due la connessione Internet in India è esattamente descritta nella frase di un mio amico di infanzia al nostro "primo approccio" ad Internet di sempre: eravamo a casa mia, bambini, con i capelli a caschetto e le magliettine con le tartarughe ninja e la sua frase fu, essendo lui in quel periodo il saputello della comitiva: ragazzi, vi avviso, Internet è una cosa molto, molto lenta.)
Fatto sta che inizia a piovere, è già la seconda volta che lo dico e mi perdo nei meandri dei discorsi randomici. Per farla breve ci spostiamo dentro e il primo commento della seconda ragazza è: però non c’è l’aria condizionata accesa, potevano accendere la prima. Non so bene perché mi sia rimasta in mente questa cosa, ma io preferisco il caldo: non riescono a capire che quando entri in un posto, se la temperatura è tanto diversa rispetto a quella che trovi fuori, quando esci o hai troppo freddo oppure hai troppo caldo? Un altro esempio può essere la macchina: loro, con il caldo che fa notoriamente sempre (sempre e comunque) in India, hanno continuamente l’aria condizionata accesa e sparata a 1000, come si suol dire. Perché? Starai meglio per i primi cinque minuti in cui entri in macchina, ma poi quando esci stai male per tutto il resto del tempo! Non ti converrebbe forse, in decine di anni di storia indiana in cui avete l’aria condizionata, non vi siete resi conto che forse stareste meglio a non accenderla proprio? Poi su questo discorso ci sono anche gli estremisti: (l’ho fatto anch’io, lo ammetto anche oggi) la doccia calda. Però la trovo una cosa molto zen: devi fare la doccia calda e devi stare sotto finché non arrivi al punto di equilibrio, quando non ti dà più fastidio il calore dell’acqua. Se stai sotto la doccia calda soltanto per il tempo del lavaggio e senti ancora il caldo dell’acqua quando esci forse è perfino peggio di farla fredda.
Inizia a piovere, e siamo a tre: usciamo da quel cazzo di ristorante e saliamo in macchina con la ragazza. Vediamo se riesco ad arrivare alla fine di quello che volevo dire: la ragazza non può accompagnarci fino al forte, accostiamo un risciò e gli urliamo di fermarsi da una parte. La pioggia è diventata “quella grossa che ti ammacca”(di questa citazione di Forrest Gump sono sicuro perché quando ero bambino me la immaginavo ammaccare gli elmetti dei soldati in Vietnam). Per farla breve saliamo sul risciò quando ci sono già 30 cm d’acqua su tutto il manto stradale. I motorini che sembrano barche, i pedoni Gesù Cristo. Cosa fare? Impaurirsi? Essere terrorizzati da tutto ciò? Aver paura di non sopravvivere, e di non sapere come arrivare a casa?
Ci siamo messi a ridere per tutto il resto del viaggio. Non una risata scomposta, come sarebbe facile pensare. Una risata felice, serena, tranquilla. Una risata di quelle che sai che tanto andrà tutto bene. Ricordo la prima volta che sono venuto in India, dal 22 luglio 2012 fino all’11 settembre 2012, sostanzialmente mi sono fatto tutto il periodo monsonico indiano. E, sarà stato perché quella è stata la prima volta che sono venuto qua, sarà stato perché ero disposto, ventiquattrenne, a qualsiasi cosa mi fosse capitata davanti. Ma quell’India, quella monsonica, a me è rimasta nel cuore. E sono stupefatto dell’affinità che anche in questo io abbia con gli indiani: sarà un’affinità creata, perché vengo qua da tanto tempo, e non elettiva. O forse elettiva, perché doveva e poteva essere solo soltanto in questa maniera. Non importa, gli indiani, quando piove, sono felici. Ricorderò per sempre quando io e Irene, qualche giorno prima dell’11 settembre 2012 (data del rientro, vedi sopra), siamo stati insieme a vedere il Taj Mahal. Bellissimo, poi visto con lei è valso miliardi di volte in più. Ultimo Mahal del complesso da vedere, entriamo, e all'uscita il diluvio universale. Una folla di gente sulla porta che non si muove, ma che sorride guardando fuori. Nessuno è realmente preoccupato. Alcuni, delle coppie perlopiù, o dei bambini, escono nella pioggia per goderne. Per arrivare oltre la discesa che porta al parcheggio. La discesa è tra due muri pieni, unica uscita da tutto il complesso del Taj Mahal. Io e lei ci guardiamo, sorridiamo, probabilmente lei mi avrà detto “Si va?” e in un istante ci siamo ritrovati zuppi, correndo, con l’acqua fino ai polpacci, per la discesa che sembrava un fiume, ma contenti.
Entrati in macchina ci hanno chiesto gli autisti “avete goduto della pioggia?”.

venerdì 26 maggio 2017

Il Garage Indiano_11 A metà


73. Proprio 73, abbiamo fatto il conto insieme.
Mi ritrovo lì, seduto insieme a lui. Insieme al bramino. I suoi occhi che mi guardano sereni, lontanamente lucidi, con un sorriso sincero. Ha pochi capelli in testa, su quella testa affilata, due occhi grandi dietro a degli occhiali cambiati ogni cinque minuti, per vedere da lontano e da vicino. Guarda un foglietto che ha in mano, mai distratto. Scambia due parole con il fratello della moglie seduto qualche metro più in là. Il fratello della moglie sembra più giovane di lui, non parla inglese quasi per niente, ma penso che riesca a capirmi. Ha uno sguardo stanco, come se non avesse dormito la scorsa notte, come se avesse pianto da sempre. La piattaforma su cui stiamo seduti si chiama otta, è uno spazio tra la strada e la casa, un po’ come tutto qua in India. L’india, una terra a metà. Come i ghat di Varanasi, che non si sa bene dove finiscano, non si capisce dove entrino in acqua. Non si capisce, o forse non c’è da capire, dove finisca l’acqua ed inizi la terra: in una stagione l’acqua ricopre tutto, dopo qualche mese l’acqua non c’è proprio. Il loro modo di dire sì, con un cenno della testa, è un ciondolio, nel quale la testa fa come una campana, oscillando il mento da una parte all’altra. Dopo anni di esercizio riesco a capire quando siano d’accordo con quello che sto dicendo o meno. Se vedessimo la stessa cosa da noi sarebbe a significare un no, sicuramente. Ma qua, la variazione di oscillazione del mento di pochi gradi distingue il sì dal no, non ne sei mai pienamente convinto: un cenno di assenso o dissenso? Forse un qualcosa a metà. Come quella piattaforma dove stavamo seduti, non pubblica, non privata.
Come lo sguardo del bramino, non contento, non triste. A metà. Mi ha appena detto che lo stesso giorno in cui lo sono andato a trovare sua moglie, dopo essere stata a letto per tanto tempo, molti anni, se n’è andata. Quando me l’ha detto mi si è spezzato il cuore, in qualche modo (assurdo) credevo che ci fosse relazione tra il fatto che io fossi stato lì e quella dipartita. Un po’ come successe anche per la mia bis zia Zaira: non lo ricordo bene, perché avevo solo nove anni quando morì suo marito, lo zio Paolo. Avevo nove anni e quell’anno era nato Leonardo, mio fratello. Era un segno del destino, un piccolo bambino quando un anziano se ne va. Arrivato come a prendere il suo posto nella vita delle persone che gli volevano bene. La zia Zaira ha sempre amato con tutto il suo cuore tutti noi, i nipoti e bisnipoti (e ne aveva tanti! Una volta, con la nonna, facemmo il conto, erano più di 30) ma Leonardo, Leonardo le era nel cuore un po’ di più.
Così per la moglie del bramino: lo stesso giorno, poteva capitare in ogni altro momento, ma è successo proprio quel giorno.
Non essere triste, mi dice, non siamo fatti per continuare a stare in questo mondo. Nessuno continuerà per sempre a starci, sta sorridendo mentre mi dice questo, non riesco a crederci. Sorride, e su quella piattaforma coperta da un velo colorato e petali di fiori è posta una fotografia della moglie. Il bramino la guarda, è stata la migliore delle migliori amiche che abbia mai avuto. Non potevo desiderare di meglio.
Siamo stati insieme tanto tempo, 73 anni.

mercoledì 24 maggio 2017

Il Garage Indiano_10 Gioia


Il decimo giorno. Importante.
Il decimo giorno di questa avventura indiana. Di questa cosa che già conosco, ma che non riesco mai ad imparare. Ci sono sensazioni che non sono spiegabili. Va bene gli odori, va bene i sapori, quel piccante che ti brucia in gola e continua a bruciarti dello stomaco e poi quando lo vedi all’uscita… E vi assicuro che non è facile quando esce. Poi ci sono quelli fortunati invece, che non hanno mai avuto problemi in queste terre. Io ne ho, e continuo a tornarci inspiegabilmente per il fascino del quale mi sento inondato quando sono qui. Ma non è tanto questa la cosa importante. Quanto quelle piccole cose, che magari una volta hai sentito dire, che magari provi a reputare vere soltanto perché le hai elette in un libro. Poi quando le trovi, quando hai l’occasione di rendertene conto personalmente, ti abbagliano. Non sono cose spiegabili.
Sono appena tornato da una cena tra amici, ho parlato con Irene, la cena è andata bene, lei era a lavorare, io a mangiare pollo tandoori, senza dire al cameriere che lo volevo poco piccante, soltanto lasciandosi trasportare da quello che sarebbe potuto essere. E lei, anche di domenica a lavorare, se non ci fosse lei che mi spinge, mi porta ad avere la forza di fare, probabilmente non ci metterei la forza di volontà che ci metto. Ma probabilmente neanche la metà.
Il decimo giorno di questa avventura indiana è una domenica.
Essendo domenica, nonostante qua in India molti lavorino, ho deciso di prendermi una giornata un po’ più libera: mi sono svegliato e di mattina ho deciso di andare a fare una passeggiata. Nei giorni scorsi vedevo dal forte quelle mura, che non sono proprio quelle attaccate al forte ma sono quelle esterne, probabilmente una nuova recinzione fatta da chissà quale maragià in un secondo momento. E comunque, anche se la mia camminata non è che sia durata tantissimo, saranno stati al massimo una 20cinquina di minuti all’andata e altrettanto al ritorno, Shubham stasera, quando io l’ho detto a tavola, è rimasto scioccato dal fatto che ci fossi riuscito. A me, in realtà, pare di non aver fatto chissà che.
Ma chissà che è stata invece quella sensazione, seduto su una delle rocce più alte del monte accanto al forte di Jodhpur, una di quelle rosse, monumentali, che si sporgono sulla vallata, dicevo quella sensazione di libertà che mi ha dato il panorama infinito davanti a me. Forse in lontananza per la nebbia sempiterna il cielo si confondeva con la terra, ma ero lì, senza nessuno intorno, a guardare fin dove l’occhio poteva arrivare. Sulla sinistra il forte, sulla destra il deserto e in mezzo quelle poche case che rimangono esposte a tutti i venti caldi dal Pakistan. Avevo deciso di fare una camminata di qualche kilometro, uscendo dal forte e scendendo verso la città poi d’improvviso mi sono trovato a voltare a sinistra e a salire per una scala ripida che, vista la pioggia della notte passata, aveva dei pezzi in piano completamente fradici, delle enormi pozzanghere. Mi sentivo un genio a passare sulle rocce che facevano da corrimano. In realtà, girandomi un attimo verso il basso, capivo che era una cosa del tutto comune, ma la sentivo mia. E arrivato su quella roccia, in cima, nessuno mi avrebbe raggiunto. Forse perché non era la più alta? Forse perché per gli altri non meritava così tanto. In ogni momento avevo paura che un serpente uscisse dalla fessura tra delle rocce. Ma non successe e stetti lì, qualche tempo, nell’abbaglio del panorama che mi si stagliava davanti.
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Tornando verso il forte mi sono fermato al vivaio del parco: non l’avevo mai visto prima e per caso, per la mia solita e insensata curiosità, sono entrato da quel cancelletto di ferro. Una mezza dozzina di donne erano sedute per terra intorno ad un mucchio di rena alto quasi 1 metro. Tutto intorno, cosa del tutto impossibile da vedere dall’esterno, tanto i cespugli erano alti, degli enormi bancali, sembravano quasi infiniti, pieni di sacchetti neri grossi quanto un avambraccio, riempiti di terra da ognuno dei quali spuntava una piccola piantina. Non so perché, ma dopo una decina di minuti, saranno stati i sorrisi delle donne, sarà stato il chiedere, fare e ricevere fotografie, mi sono ritrovato seduto con loro a riempire i piccoli sacchetti di terra. La meticolosità con cui la donna alla mia sinistra mi insegnava come battere il piccolo sacchetto per terra per rompere il panetto e far spazio alla nuova terra che avrei messo dopo, mi ricordava, non so per quale ragione, quei momenti davanti alla porta di casa di mia nonna, quando le ceste erano piene di pomodori e lei e la sorella di mio nonno passavano quei pomodori per interi pomeriggi, finché non erano finiti, preparando la “passata” per tutto l’inverno. Una dedizione sovrappensiero, un’azione che viene fatta dalle mani esperte in modo apparentemente automatico, quando ti accorgi che l’attenzione al dettaglio invece è meticolosa: una radice che spunta fuori, un pomodoro da epurare da una piccola parte marcia. Le mani callose e dolenti per l’artrosi, lo sguardo sereno ma consapevole dell’importanza di ciò che si sta facendo adesso per il periodo futuro.
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Succedono delle cose, in India, che non si possono né spiegare né descrivere. Cercherò di raccontare ciò che è successo al meglio possibile, ma non sarà sufficiente per far capire quello che ho provato. Sarebbe irraggiungibile, ma vi assicuro che è una cosa che nella vita deve essere provata, per forza. Più che per forza è per capire, per capire lontanamente ciò che sentono e che provano coloro che fanno del bene ogni giorno.
Sono davanti al più grande negozio di dolcetti di tutta Jodhpur. Sto aspettando Schubham e sono le 7:30 di sera, andiamo a cena da qualche parte. È stato carino a propormi di andare con lui e i suoi amici, sa bene che altrimenti avrei cenato da solo. Un bambino mi si avvicina e mi fa il gesto, con la mano alla bocca, di mangiare. Indica negozio di dolciumi. È un bambino molto povero, vedo in mezzo al guardrail che divide le due grandi carreggiate di quella strada nuova della città, la sua famiglia: il babbo mamma e due piccole sorelle, più piccole di lui. Le macchine sfrecciano loro accanto senza accorgersi della loro presenza. Soltanto quando c’è il rosso, allora la mamma prende in braccio la sorellina più piccola, minuscola, nuda, non per causare pietà, ma probabilmente perché quei pochi stracci sporchi che hanno lì sono tutti i loro averi. Una guardia, addetta alla sicurezza del negozio di dolciumi, manda via il bambino, mi sorride. Il mio sentore passa in un istante dall’imbarazzo alla certezza: vado dentro al negozio, chiedo quanto costa un box di dolci, 200 rupie, neanche tre euro, me lo faccio riempire ed esco. Passo la carreggiata e mi avvicino alla famiglia, sorrido al padre, gli passo la busta con i dolci e gli dico: enjoy. Probabilmente non capisce neanche l’inglese, non mi importa. Torno subito dalla mia parte della carreggiata, cerco di non farmi vedere mentre sbircio ciò che sta succedendo. Non se ne può avere un’idea se non si vede con i propri occhi: una festa. Una festa fatta di niente, solo di sorrisi e gioia, per i dolci arrivati lì per caso. Altri bambini arrivano verso la famiglia e il padre distribuisce equamente a tutti il contenuto della, adesso lo capisco, troppo piccola scatola. I bambini, erano un ammasso di polvere sabbia e fango, le uniche due cose luminose che si vedevano erano i loro denti, che riempivano sorrisi straordinari, e quel dolcetto, così rosso o giallo o verde, che con una delicatezza e una attenzione chirurgica veniva portato alla bocca, per essere assaporato a piccolissimi morsi. Una festa.
Ne parlavo con mia madre, ci siamo commossi insieme. Beati i poveri di spirito, mi ricorda lei, i semplici, coloro che con niente riempiono gli otri giganti dei loro cuori.
Come ho già detto prima, succedono delle cose, in India, che per quanto ci si provi non si riesce a capire, a spiegare, ma si possono sentire. Ti restano dentro, sono le esperienze per eccellenza che creano ciò che sei. Inutile provare a scrivere altro, cercare di descrivere la compassione, la tristezza, la povertà, il niente e il tutto che c’è in quell’immagine scolpita per sempre dentro di me. Una sola parola merita di essere detta, ricordata e tenuta a mente ogni volta che si è incerti se fare o non fare una cosa per gli altri, come ero io con quella guardia accanto che mandava via il bambino, una sola parola:
gioia.

martedì 23 maggio 2017

Il Garage Indiano_9 Il tuffo


C’è Giugi.
Dove sei stata? Le chiedo. Non risponde. E subito mi rendo conto, con lo stesso effetto che fa un ghiacciolo sulla schiena, di iniziare a sentir la solitudine. Mi ritrovo a fare delle domande ad alta voce ad un geco sulla parete. Si è messa vicina alla luce accesa e c’è la sua cena che sta volando intorno alla lampadina. Fa dei piccoli scatti, ogni volta che si avvicina. Sono seduto subito fuori dalla porta di camera mia, sull’ingresso che ha un balcone comunicante con tutte le altre camere, riparato dal vento a tal punto che sudo anche lì.
Non hai caldo? L’ho fatto di nuovo. Ma stavolta consapevolmente, parlando un po’ a me stesso. La massima oggi è toccato il 46°. Adesso, alle 22:00 dovremmo essere intorno ai 36 37. Comunque caldo. Talmente caldo che oggi pomeriggio mi era venuta voglia di andare in piscina. Sabato pomeriggio, niente di meglio che un tuffo. Ma tutte le piscine di Jodhpur approcciabili come prezzo sono fuori dalla città, e soprattutto, mi sono detto, se sono così tanto approcciabili (50 rupie, all’incirca un euro per l’intera giornata), il costo sarà sicuramente inversamente proporzionale alla quantità o alla qualità sublime delle malattie che potrei prendermi facendo un bagno in quell’acqua. Ma più che per questo é per la distanza che desisto. Mi viene quindi in mente un hotel con piscina, proprio nel centro della città vecchia, rimesso a nuovo da qualche anno, uno di quelli di lusso a 6 stelle. Decido di fare un tentativo: Pronto? Posso parlare in inglese? Quanto costa venire in piscina da voi? Ah, per questo prezzo ci posso stare due ore. Ok, probabilmente vengo tra un po’.
3000 rupie, € 42, due ore. Completamente fuori di testa. Esco da camera mia e decido, essendo stato bloccato lì tutto il giorno, di fare una passeggiata. Nel cortile del forte incontro Shubham che mi dice, guarda tra poco inizia il corso antincendio del forte, con anche delle prove pratiche. Vuoi assistere? Decido che non ho di meglio da fare e mi metto a sedere. Erano state sistemate sul pavimento due enormi coperte e Shubham mi ha fatto notare che erano coperte filate dai carcerati di Jodhpur. C’era un’etichetta che lo diceva. Fatto sta, che dopo una decina di minuti, (ormai erano le 6:30, il di parecchio dopo l’orario di chiusura del forte) il tappeto si è riempito del personale al completo del forte, con tanto di appello e scelta arbitraria dei volontari per le prove pratiche seguenti. Decido di fermarmi soprattutto perché volevo testare la mia conoscenza dell’Hindi e capire quanto riuscivo ad intendere di quell’omone che stava parlando, sui vari tipi di estintori da utilizzare ed dove farlo. Fermo lì seduto, mi torna il caldo. Basta, scendo in città, vado a piedi. Conoscenza dell’hindi, molto bassa. Si riusciva a capire quello che diceva soltanto per come si muoveva l’istruttore. Utilizzava degli strani strumenti e spiegava come fare a tirar fuori da una stanza in fiamme degli importanti documenti, con un bastone e un uncino in fondo.
E arrivo a quel pozzo che hanno restaurato qualche anno fa. Per chi non avesse mai visto un pozzo indiano, come lo chiamano loro uno stepwell, basta dire che è uno di quelli fatto a gradoni, spesso a pianta quadrata, che scende giù non si sa per quanto. Sembra un po’ una piramide azteca al contrario. In un cartello, poco distante da me, c’è scritto che il pozzo ha più di 400 anni ed è stato restaurato negli ultimi due anni riportando alla luce degli splendidi intarsi che ritraggono vari animali fantastici. Io gli animali non li vedo, ma è veramente un bel recupero. A quest’ora, verso le 6:30, ci sono sempre dei ragazzi seduti lì intorno. Fossimo in Italia si starebbero facendo le canne. Ma qui in India no, gettano da mangiare ai pesci, mangiano noccioline, studiano. Probabilmente quelli che si fanno le canne arriveranno soltanto tra qualche ora. Nel frattempo mi metto seduto, poco distante da loro, come sempre solo. Un gruppo di adulti è seduto lì, molti gradoni più in giù, quasi sull’acqua. Diciamo, a un piano d’altezza. Quand’ecco che un ragazzo, uno di loro, si lancia.
Le gambe verso il basso, completamente vestito si tappa il naso con una mano. In un secondo, con un tonfo eccolo in acqua. E dopo di lui un altro, e poi un altro ancora. Tutto il gruppo cinque o sei ragazzi si sono buttati nella acqua del pozzo. Vestiti. Senza nessun tipo di preavviso, soltanto sfilandosi le ciabatte. Tanto in cinque minuti saranno già asciutti.
42 euro per due ore di piscina, vuota, come ne abbiamo centinaia nelle nostre città, oppure il coraggio di lanciarsi da un gradone nello stepwell, con altri ragazzi, che si divertono e si schizzano a vicenda tra amici. Certo se lo facessi io, probabilmente prenderei più di un brutto male, ma che voglia. Magari l’acqua non è neanche fredda, sicuramente non lo è, ma la soddisfazione di lanciarsi e godere del corpo fradicio mentre si esce, avanzando a gattoni sui primi scalini bagnati, deve essere incredibile. Sarebbe un po’ abbandonare ciò che c’è dietro, o perlomeno adesso penso che sarebbe così: perdere ogni contatto con la realtà, dimenticarsi per un istante di essere a 6600 km di distanza da casa, essere soltanto un corpo in volo diretto chissà dove, ma sicuro di tornare, e tornare fresco, completamente bagnato. Ieri uno dei miei migliori amici mi ha mandato un suo autoscatto di lui al lavoro, così, per farmi compagnia. Faceva una boccaccia, ma nonostante questo era in giacca e cravatta alla scrivania. Così ripenso la mia scrivania, a quante ore ho passato seduto lì, qualche volta soddisfatto, altre senza la minima voglia di continuare a starci, non trovandone un senso. La giacca, la cravatta che qualche volta mi metto (devo dire molto poco spesso, solo durante le grandi occasioni), abbandonarle su quel gradino. E lanciarsi.
Ma quando avremo il coraggio di fare una cosa del genere? Quand’è che ci verrà dato di trovare l’energia e la spinta interiore per abbandonare ciò che ci siamo convinti costretti ad essere e di essere? Ripenso allo sguardo del bramino, la sua tranquillità e pacatezza, la felicità di Nanil, che non ha niente se non la sua famiglia. E penso davvero con i miei 200 a volte 300 euro in tasca di essere più ricco di loro?
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Giugi mi guarda, non mi giudica. Ma osserva, dall’alto della parete, il mio riflettere. La bidi che sto fumando è finita, la cenere sottilissima è volata via per il vento. Adesso si sta bene, ed ogni giorno, insieme a morire, si cresce un po’ di più, lei lo sa e lo sente.
Mi dice: l’importante è crescere più velocemente di quanto si muore.

domenica 21 maggio 2017

Il Garage Indiano_8 L'uomo delle Aquile


Ore 15.30. 
Tutto il giorno passato davanti al computer, se non contiamo la scappatella mattutina in paese per andare a riprendere i vestiti in lavanderia, se si può chiamare lavanderia poi, ma devo dire che il rapporto qualità prezzo non è per niente male. È un posto davanti alla guest house di Imran, sembra un bugigattolo da niente, poi, quando butti l’occhio per capire cose c’è dentro, si apre una finestra sulla casetta, visibile quasi completamente, del lavandaio. Se ti affacci dentro a quella finestrella sulla strada vedi la moglie, seduta a terra nella stanza sul retro, il figlio, un chiacchierone che non perde occasione mai di attaccare parola e lui, il padre, che conosce sì e no una decina di parole in inglese. Ma quelle bastano. Tutto è avvolto in un senso di pace, di serenità. Quando sono arrivato stamattina, molto presto, lui leggeva il giornale e lei ripiegava alcuni vestiti. Erano entrambi seduti per terra in quella cameretta, cucinotto, salotto e ripostiglio, alla fine dello spazio del negozio, che misurava poco più di un paio di metri quadrati. Lui era sorridente, non mi aveva ancora visto. Poi la moglie deve avergli fatto un cenno e lui si è girato verso di me, alzando la mano sinistra con cui teneva il giornale e scandendo un, ancora sonnolento, namastè.
Raccolti i vestiti ho fatto un giro di una mezz’oretta per la citta vecchia. Pensavo a quanto spazio fosse sprecato, a quanto fosse invece utilizzato male. Accatastamenti di rottami di qualsiasi genere, dalle stoviglie rotte ai televisori, dal cofano bozzato di una macchina a svariati carrelli o ruote rotti. Cataste che si innalzavano per svariati metri, davanti alle quali non sapevo neanche cosa pensare: saranno lì da un giorno o da sempre? Resteranno così finchè qualcuno come me, qualcuno che viene da fuori, si metterà a toglierli o prima o poi si renderanno conto che quello spazio potrebbe essere utilizzato in altro modo, come per esempio da parcheggio per le decine e decine di motorini sparsi per tutta la piazza dell’orologio? Non era la prima volta che mi facevo questa domanda, e sul momento sperai che fosse l’ultima, che qualcuno mi avrebbe presto dato una risposta. Una vecchia, avrà avuto più di ottant’anni, a cercare nelle cataste, e un ragazzo con un carretto, nel vuoto della piazza di quell’ora, che spingeva e spingeva. Una volta mi dissero che per fare un percorso di cinque chilometri, andata e ritorno, per andare a rivendere i pezzi elettrici trovati, un ragazzo prendeva cinque rupie. Neanche una decina di centesimi di euro.
Erano ancora le sette e mezzo quando decisi di tornare al Forte, per mettermi seduto a quella scrivania, nella mia camera, che come minimo misurava una decina di volte la casa del lavandaio, ma sicuramente non era altrettanto accogliente.
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Dicevo, 15.30. Sono al cesso. E, guardando l’orologio mi viene in mente che Anand, uno degli inservienti del forte, ieri mi ha detto, mentre cercavo di convincerlo che la pasta in Italia la lasciamo a cuocere soltanto per il tempo scritto sulla busta e non “dai cinque ai dieci minuti in più”, che
domani devi andare assolutamente dall’uomo delle aquile.
E non è uno scherzo, niente di poetico o romanzato. In quella cucina, calda asfissiante, con il ventilatore che serviva soltanto a far circolare ad intervalli, vampate di calore con quelle di spezie, mi ha detto proprio di
Si, l’uomo delle aquile, devi andare a vederlo. Alle tre e mezzo, domani.
Ed eccomi lì sul cesso, che guardo l’orologio e mi tornano alla mente quelle parole. Vi assicuro che i momenti di raccoglimento nell’ufficio di servizio, quello che si visita diverse volte al giorno, qualche volta per pochi minuti, le altre per dei meeting un po’ più lunghi, sono sempre impegnativi in india. Nonostante i fermenti lattici e quant’altro. Quindi corro (in senso figurato, cammino in realtà, perché fanno 42° a quest’ora secondo il meteo-cellulare che prende il dato, mi ha detto Shubham, alla stazione di Jodhpur, dove fanno almeno un paio di gradi in meno che qui. Quindi qua ne fanno almeno 45) dicevo, eccomi a correre verso l’uscita dell’ostello del forte, per voltare verso destra, direziona mai presa prima, e salire sul bastione delle aquile. Inizio a sudare, strada in salita. Caldo, pieno sole e tanta polvere. Vento.
Lo vedo.
Decine e decine di aquile che sorvolano un uomo, là, in lontananza.
Degli operai mi urlano: non puoi stare qua! E io rispondo che sono un ospite, ma non do loro più di tanta relazione. Sono incantato.
Un uomo da solo, che lancia pezzi di carne nel vuoto. E neanche uno tocca terra. Li lancia giù dal bastione. Li lancia in alto. Li lancia. Non importa in che direzione o con che forza. Nessuno di quei pezzi di carne è destinato a toccare terra. Sono quasi immobilizzato dalla bellezza della scena.
Il sole, in lontananza, tratteggia soltanto i contorni di quell’esile figura, sovrastata da una nuvola immensa, in gestazione continua, di volatili.
Mi sblocco, mi avvicino. Non trovo la via, e le grida degli uomini hanno fatto girare verso di noi la figura. Loro continuano a dirmi di andare via. Lui mi indica, con una mano, una scala, per raggiungerlo. Non bado a quelli che mi stanno ancora dicendo di non andare. Sono già sulla scala. E arrivo sopra. Vicino a lui.
Resta indietro. Puoi stare là se vuoi. Nessuno è ammesso qui. Ma se vuoi puoi restare lì.
Sono un ospite del forte. Sto qua nell’ostello. Anand mi ha detto di venire.
Con uno sguardo stupito mi guarda e mi dice, allora vieni.
Mi avvicino. Su una delle merlature del bastione, sulla pietra rossa, sono gettati dei pezzi di carne cruda che emanano un odore acre, di sangue fresco. Senza mai smettere di lanciare quei pezzetti, grossi quanto delle fragole, nel cielo, mi inizia a parlare tranquillamente. La sua voce è bassa, roca, nonostante la sua figura mingherlina. Sembra più grande di me, ma sicuramente non lo sarà. Il tempo, qua, logora in maniera diversa.
Prova, uno per uno, lancia giù.
Non vedevo l’ora. Ma non aspettava neanche che glielo chiedessi. Per lui, io dovevo farlo.
Lo vedi quel tempio là? È un tempio induista, io sono musulmano, siamo tutti diversi, anche la tua religione, non la so, ma non mi importa. L’importante per me è il bene delle persone. Il bene di tutto e di tutti i buoni.
Mi avvicino a quella carne che a contatto con la pietra caldissima, in alcuni punti si è un po’ cotta, attaccandosi alla pietra. Ne prendo una viscida manciata. È tagliata perfettamente, sembra quasi uno spezzatino. È carne di capra, mi dice. Questo è un muscolo, questo è lo stomaco. Loro preferiscono il polmone. Inizio a lanciare accanto a lui, la carne al vento. Puoi lanciarla dove vuoi, un pezzo alla volta. Loro lo prendono. Sempre. Lo prendono. Se lo lanci, sicuramente non arriva a terra. Prova a lanciarlo in alto.
Lo lancio, e un’aquila, sembrava fosse già lì, con le zampe lo agguanta immediatamente.
Gli piaci. Sei una buona persona. Non da tutti la vogliono. Alle volte lasciano cadere il pezzo. Sono le persone non belle. Come ti chiami, mi chiede. Pietro, e te? Latif, ma tutti mi chiamano l’uomo delle aquile. Oggi c’è davvero tanto vento. Non sono abituate ad avere tutto questo vento. Ma non lasciano cadere neanche un pezzo. Tu gli piaci. Mio padre faceva questo prima di me e suo padre ancora prima. Ogni giorno cinque, sei chili di carne. Li porto qua. Li do a loro. Lo vedi quel gatto che è vicino a te?
Mi sono voltato. Non avevo assolutamente visto quel gatto un secondo prima.
Ecco, lui è la mia guardia. Se mi casca qualcosa lo mangia lui. Vedi, anche se cade viene mangiato. Anche se qualche pezzo scivola dal bastione, ci sono i serpenti. Non importa chi lo mangia. L’importante è che non vada sprecato.
D’un tratto una delle aquile mi sfiora in volo e mi abbasso, di riflesso.
Non aver paura, vuol dire che gli piaci proprio. Ed abbiamo continuato per un po’ in silenzio, a gettare la carne al vento. Neanche un pezzo toccava il suolo. Neanche uno. Loro lo prendono. Continuava a ripeterlo, loro lo prendono. Vedi? Lo prendono.
Sto per prendere gli ultimi pezzetti di carne per lanciarli, ma Latif mi ha detto di aspettare. Che ha una sorpresa. Torniamo indietro sul bastione. C’è un piccolo riparo lì sopra, una finestrella incassata che dà su un interno. Mi ha detto di sedermi lì. Obbedisco e mi siedo. Sono con il capo chino, tanto è bassa la finestra. Lui si mette seduto accanto a me, con la carne in mano. Gli ultimi due pezzetti. Polmone, lo vedevo dal colore più violaceo. Sto sudando. Ti dovresti mettere una canottiera. E radere. Le ascelle e il bacino. Aiuta. Non sei abituato a questo caldo. Mi dice.
Latif lancia un pezzetto di carne un po’ più in là, sul bastione.
Hai problemi di stomaco. Problemi ad andare in bagno. Dovresti mangiare meno peperoncino e più zenzero. Lo so. Lo sento. Come fai? Chiedo io. Non me lo chiedere, non sono cose che si chiedono. Si sanno e basta.
Sono rimasto di stucco. Forse era facile in realtà, per uno straniero sono i principali malesseri qua in India. Uno che suda come me poi, ancora di più. Ma lo ha detto con una semplicità e una serenità spiazzanti. Un aquila, d’un tratto si è posata vicino al pezzo di carne. Era maestosa. Ci guardava. E Latif la guardava fisso.
Guarda le zampe, mi ha detto. Ora.
E d’un tratto ha lanciato un altro pezzo di carne in alto. L’aquila ha spiccato il volo, aprendo le ali gigantesche, rivelando gli artigli e spostando la polvere tutto intorno a lei, le zampe gialle d’oro al sole, gli artigli lunghissimi luccicavano. Le ali che creano la notte per il tempo di un baleno, su di noi.
Un istante. Ed è già volata via. Con sguardo assorto, forse contento di aver condiviso una cosa soltanto sua, mi guarda, con lo stesso sguardo sereno, ma concentrato con cui aveva guardato l’aquila poco prima. Mi sorride. Ci stringiamo la mano. Quella mano ancora sporca di sangue, ma una mano vera.

Una stretta di mano che ricorderò, la stretta di mano con quel ragazzo, Latif. Un po’ saggio, un po’ indovino. Latif è l’uomo delle aquile.

sabato 20 maggio 2017

Il Garage Indiano_7 L'ospite è Dio


Inizierò scopiazzando (perché lo scimmiottare secondo me ha ancora un po’ di dignità) Terzani, ma un Terzani al contrario:

Dissi ad un Bramino:
un giorno, ero ad Ahmedabad, e non riesco a capirne il perché, ma quando chiesi spiegazione di dove fosse un posto ad una persona qualsiasi, uno che non avevo mai visto prima e che era seduto, tranquillo, a prendere un chai, il tè indiano, lui si è alzato, e sorridendo mi ha detto: ti ci porto io! Continuavo a ripetere che non volevo disturbare, non importava, in qualche modo ci sarei arrivato. Ma, come dice un mio amico, tra un dillo e un dallo, siamo arrivati a destinazione. Allora gli ho chiesto: ma perché hai perso tempo a portarmi fin qua? E lui, sempre sorridendo, mi ha risposto così:
l’ospite è come Dio.

Il bramino al quale stavo parlando è rimasto in silenzio per qualche momento, guardandomi, conoscendo la risposta ma sapendo che, aspettando qualche secondo in più, sarebbe penetrata ancor più a fondo dentro di me.

È un’antica legge della nostra religione, all’inizio era scritta in sanscrito. Erano talmente simili le parole “ospite” e “Dio”, che nella frase scritta si confondevano: l’ospite è come Dio, Dio è come l’ospite. Ma che differenza può fare?
Per lavoro sono entrato in tante case oggi. Non ricordo neanche più, a quest’ora tarda, quante. Diciamo tra le 15 e 20 case diverse, in posti diversi della città. Alcune più ospitali, altre meno. Ma in una in particolare ho passato più tempo: era una vecchia casa nella zona dei bramini, poco distante dalla casa del vecchio sociologo. Per essere precisi era proprio la casa accanto. Ero andato lì per cercare di capire come fosse cambiata nel tempo la casa, quali pareti fossero state tirate su, quali colonne fossero state buttate giù. Il babbo, 32 anni, la mamma, di poco più giovane e due bambine straordinarie. La più piccola ha compiuto da qualche giorno un anno e mi sorride. Già ieri ero passato da loro per chiedere se potevo disturbarli e più che disturbati mi sono parsi contenti di avermi in casa. Avevo il blocco degli appunti in mano e i miei strumenti di misurazione, ma l’uomo di casa, Nanil, ci teneva a rendermi partecipe che quella casa era loro da tre generazioni, farmi capire quali pareti erano state buttate giù e quali invece erano state create da zero. E mi viene da pensare: sarei io così disponibile con un estraneo, proveniente dall’altra parte del mondo, all’arrivo a casa mia, a Firenze: suona il mio campanello e mi chiede, posso entrare che faccio due misure alla casa? Sono uno studente da un altro continente, vi do fastidio?
Il minimo che chiunque di noi avrebbe potuto chiedere sarebbe stato un documento dell’Università, una prova del fatto che sia vero quello che dice. Invece Nanil, dopo qualche minuto mi ha chiesto se volevo un tè, insieme alla moglie sono rimasti contenti del fatto che volessi un tè, tipico, di Jodhpur. Ho tenuto in braccio le loro bambine, Nanil si è anche permesso di darmi una pacca sulla spalla, certificato del mio essere entrato in famiglia. Mentre andavo via mi hanno invitato a pranzo, ho dovuto rifiutare. Ma in realtà, dentro di me sarei anche restato a pranzo. Non avessi saputo che comunque sarei stato male qualsiasi cosa mi avessero dato da mangiare. Ero seduto appena fuori casa loro per rimettermi le scarpe e Nanil mi ha detto, in un inglese biascicato del quale si era scusato ormai mille volte,

questa è casa tua, quando torni a Jodhpur questa porta per te e tua moglie è sempre aperta. È un piacere per noi se torni. Tanto.

Li ho salutati con un ciao, un ciao italiano, che non è un arrivederci formale o un addio conclusivo. È difficilissimo spiegare determinate situazioni, emozioni così forti. Che poi, in realtà, quando entri in casa loro, ti rendi conto che non hanno niente. Ti rendi conto che quel poco che hanno, comunque, cercano di donartelo. Te ne rendi conto, ma non lo capisci. Penso che siamo nati in una società dai valori sballati, non più direzionati verso quello che è il naturale umano, il rispetto per la vita, l’accoglienza. Mi fa sempre arrabbiare il pensiero che stiamo perdendo lentamente ma continuamente il senso dell’accoglienza. Possiamo parlare del cardinal Bertone, e delle sue decine di centinaia di metri quadri coperti e riscaldati, ma vuoti, che potrebbero accogliere tante persone, che invece vanno a morire per strada di freddo la notte d’inverno. Potremmo parlare dei barconi, di quelle povere persone che lasciano la propria terra in guerra cercando un futuro migliore, e noi che sentiamo la notizia sullo schermo del gelataio col cono in mano e restiamo infastiditi dal fatto che l’Europa non ci aiuti. Facessimo una sola azione buona al giorno, ognuno di noi, e non sto parlando di dedicarci la vita, ma di una, solo un’azione al giorno, qualcosa cambierebbe. Alessandra, l’amica del mio primo viaggio in India, era ad Ahmedabad già da un mese e più quando io arrivai. Qualche giorno dopo il mio atterraggio camminavamo per strada verso l’albergo: sull’angolo dello Stadium Circle abitava una famiglia. Abitava per la strada, con qualche coperta stesa sul marciapiede, un po’ d’acqua da bere e nessun’acqua per lavarsi. Figuriamoci avere qualcosa da mangiare. Alessandra continuava tutti i giorni a portare loro qualcosa da mettere sotto i denti.
Ormai è parecchio che ti vedo portare qualcosa queste persone, ogni giorno. Ma cosa vuoi che cambi? Tanto quando vai via continuano a stare così.

Se ogni giorno, ognuno, nel mondo, facesse una sola azione buona per qualcun altro, al mondo staremmo tutti meglio.

Sacrosante parole che ancora oggi rimangono scolpite dentro di me. Per questo porto sempre dei pacchetti di biscotti nello zaino, e mi potete dire, ma sono soltanto dei biscotti! Cosa vuoi che cambi?

L’espressione sul volto di un bambino.

venerdì 19 maggio 2017

Il Garage Indiano_6 Il Senso del Meglio


Ieri sera volevo, ad un certo punto, scrivere testamento. E a ragion veduta, visto che stamattina ho trovato un pezzo di vetro grosso quanto un braccio in mezzo al giardino, spezzato da una finestra. Ma, come sempre, andiamo con ordine. Cosa che, sto mettendo sempre più a fuoco, mi riesce pochissimo.

Dopo aver finito di lavorare ieri sera salivo verso il forte dall’antica porta “sul retro”. È una salita sfiancante. A contarli bene saranno un paio di chilometri e più dritti verso l’alto dei cieli, con un’ombra minima, che a maggio, ovvero la stagione più calda indiana, significano doccia di sudore e necessità di lavarsi immediatamente. Sfiancato dalla cosa quindi corro in camera a lavarmi e apro la finestra del bagno per far uscire un po’ di vapore della doccia. Il che sembra un particolare inutile, ma non lo è.

Fresco come una rosa quindi mi avvio verso il ristorante interno al forte a metà della salita fatta prima. Il Chokelaw Bagh è una specie di dependance dal ruolo incerto, ma dalla straordinaria terrazza. Visto che sono un signore, e su questo non possiamo dire niente, la sera mangio lì: alla mia sinistra l’imponente, rosso, forte di Jodhpur e alla mia destra la magica, brulicante, città blu. Dopo una mezz’oretta nella quale me la prendo completamente con calma, arriva una nebbia fittissima. Sulla terrazza siamo io, tre ragazzi che lavorano al forte come restauratori di dipinti, e una coppia seduta al tavolo accanto. Uno dei ragazzi mi dice:

lo sento nello spirito dell’aria, arriva la pioggia.
Sorride.

Dopo un quarto d’ora i bicchieri di vetro volavano su tutta la terrazza, ai due camerieri sono volati via i turbanti ed anche gli ospiti, con il tempo messo così, hanno deciso di andarsene via. Per ora era solo vento. Quel chilometro che mi separava dalla camera mi sembrò infinito: una bora calda, desertica, buona soltanto ad alzare la polvere e la sabbia nei nostri occhi, ci soffiava contro lungo tutto il percorso. Semmai vi succedesse, un consiglio: non saltate. È il primo passo verso il decollo.
La mia camera, come ho già detto è situata sul punto più alto del forte. Avevo paura che si staccasse dal basamento e prendesse il volo, un po’ come la casetta che schiaccia la strega dell’ovest (o dell’est? Questa ignoranza la pagherò cara). La pioggia che, grazie a Dio, è arrivata soltanto una volta entrato in camera, avevo paura che sfondasse i vetri delle finestre (come appunto è successo per quelle di un bagno accanto, meno male era una camera vuota). Salta la luce e finisco Internet nel telefono. Non c’è connessione e non posso aprire la porta. L’acqua inizia a penetrare dalle fessure delle finestre. Sotto una finestra c’è una presa elettrica e mi rendo conto che l’acqua è arrivata fin lì soltanto quando hi i piedi nudi nella pozza sul pavimento. Meno male la luce era già saltata. Spengo tutti gli interruttori e tutte le spine per evitare altri danni, preparo uno zaino d’emergenza per scappare in mezzo alla pioggia nell’eventualità che una delle finestre ceda all’improvviso. Trauma. L’ultimo messaggio che mando dal telefono è ad Irene: sappi che sei stata il mio ultimo pensiero.

La situazione non cambia per circa un’ora e proprio come ci vogliono sette minuti al cervello per escludere il senso dell’odorato in presenza di fortissimi profumi o puzzi persistenti, anche io iniziai a non sentire più niente intorno a me nonostante le finestre sbattessero dal vento e lo scrosciare della pioggia scalfisse le pietre.

E d’un tratto, non so neanche io perché, mi trovo nel forte, in mezzo a una tempesta, senza luce, senza nessuna connessione con l’esterno, tranquillo, con un lumino di candela acceso accanto al letto, a leggere Il Barone Rampante di Italo Calvino.

Ma in fondo non importa trovare un senso a tutte le cose, come dice Vasco, a volte la vita un senso non ce l’ha.

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Non volevo dilungarmi più di tanto, ma non voglio perdere la sensazione che ho avuto stamattina. E non è stata una vera e propria sensazione, o meglio ne è stata la causa: gli occhi di un vecchio bramino che mi guardano e che mi invitano ad entrare in casa sua. Sono stato lì per una mezz’ora buona a parlare con lui. Quarant’anni di insegnamento di sociologia all’università di Jodhpur e adesso scrive. Mi chiede se conosco Osho. Gli vorrei dire che lo conosco soltanto per alcune battute che girano su Internet e che lo ritraggono a dire fesserie divertenti, ma mi limito a dirgli di sì. Mi racconta che un giorno un giornalista andò da Osho e, per la teoria del saggio che quando qualcosa viene dato bisogna anche ricevere qualcosa, dopo le domande del giornalista, Osho gli pose la propria:

Che cosa è meglio?

Il giornalista aspettava il resto della domanda, ma non arrivava.

Che cos’è meglio? Ripeté Osho

non lo so maestro, cosa?

Meglio è semplice.

Quanta verità, ho pensato che “è difficile trovare la strada per il semplice” e l’ho detto al bramino. Si è messo a ridere,

Hai perfettamente ragione, ma ti sbagli: non è difficile, è che ci vuole tempo.