giovedì 7 maggio 2015

Fiera


Mi disarma vedere la differenza che c’è qua tra un giorno e l’altro.

La Fiera. Il giorno prima decine di ragazzi in canottiera, in una babele di lingue urlate e emananti l’alcol della sera prima; con la stessa maestria di mastro Geppetto nell’intento di fissare il collo alla testa di pinocchio le loro mani sembrano quelle dell’Architetto di tutte le cose quando ballano sulle pareti in montaggio e le dipingono danzando tra gli stand. L’odore di sudore inonda le narici dell’avventore e il sottobosco di cartone e plastica da buttare, con un’erba di chiodi sparsa a ciuffetti per terra basta che uno tra i tanti (ragazzi nell’anarchia di nessuna differenza tra razza, colore, età e lingua) attacchi alle casse di questo luogo in mutamento una musica inaspettata, Einaudi, Ludovico, Le Onde, e tutto diviene più reale di ciò che gli occhi potevano percepire. Il surrealismo del momento, incastrato dalla bacchetta magica della musica, trasforma l’intorno in un bosco iper-contemporaneo, abitato da ballerine e artisti di strada, che in ogni gesto e in ogni parola emanano arte, anche se (forse grazie a dio) senza pretesa di infusione culturale.

Accanto a loro, in questo bosco incantato, passa d’un tratto l’ombra che rilascia morte e stridore di denti, la vera Fiera latina, la bestia che è sempre pronta a mordere; apparentemente non si mostra che in qualche donna attempata, vamp e super-truccata col fucile a canne mozze (come disse il saggio) già con in tacchi, professionista nello slalom tra i buchi del pavimento che, non ci preoccupiamo, domani sarà coperto da una moquette grigio topo di fogna.


L’idea di ciò che accadrà domani si vede soltanto attraverso quel vestito rosso, quei capelli tirati all’insù e quella penna che indica pareti e persone. Come un arbitro senza fischio assegna schiavitù e mansioni, appuntandole in una scrittura rotondeggiante da liceale anche sul taccuino che ha nella mano sinistra, non stretto tra le dita, in modo da far asciugare lo smalto sulle unghie, probabilmente tratto dal sangue di una di quelle fate del bosco.

Sostanzialmente in quel momento la sfida è tra le decine di creature che danzano nel bosco e lei, la Fiera vera e propria, nella sua forma iniziale.

Il giorno seguente la bestia ha divorato tutto e tutti. Da un’immagine di danza siamo passati a una marcia funebre; sono state posate le moquette grigio topo di fogna e dove ieri era passata la Fiera si sono creati lunghi corridoi rosso sangue. La processione per la morte non vista e non considerata - di tutta la vita che c’era il giorno prima – è composta da 2 tipologie di esseri: portafogli e macchinette di – tutto - usa e getta. I portafogli pieni si aggirano per il bosco bruciato, tramutato in casinò. Le luci che non fanno distinguere l’ora ed il puzzo di insalate russe e panini al cetriolo con maionese stantia induce ad una fame malsana. I portafogli hanno la pancia. Tutti. Piena di maionese stantia. Si avvicinano alle macchinette. Guardano e, a volte, comprano. Dopo qualche passo gettano via. Per giorni così.

Alle 18 chiude.
Alle 9 la mattina dopo ricomincia.
Alle 18 chiude.

E avanti così, finché si crea, con tutti gli scarti del compra-vendi-getta, una montagna al di fuori della fiera, della quale nessuno si è accorto. Non i portafogli, non le macchinette.
Se ne è accorta solo quella creatura del bosco, schiavizzata che, in catene, la sera porta fuori dal casino-casinò tutto il vomito di un corpo morente che è quello della Fiera nella sua forma bestiale.

La creatura del bosco ammucchia, ammucchia. Lo sa, si crea una montagna.


Alle 12. La montagna di rifiuti che c'è fuori crolla sulla Fiera, con un mio sospiro di sollievo, sono tutti dentro.

PiM

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