Ore 15.30.
Tutto il giorno passato davanti al computer, se
non contiamo la scappatella mattutina in paese per andare a riprendere i
vestiti in lavanderia, se si può chiamare lavanderia poi, ma devo dire che il
rapporto qualità prezzo non è per niente male. È un posto davanti alla guest
house di Imran, sembra un bugigattolo da niente, poi, quando butti l’occhio per
capire cose c’è dentro, si apre una finestra sulla casetta, visibile quasi
completamente, del lavandaio. Se ti affacci dentro a quella finestrella sulla
strada vedi la moglie, seduta a terra nella stanza sul retro, il figlio, un
chiacchierone che non perde occasione mai di attaccare parola e lui, il padre,
che conosce sì e no una decina di parole in inglese. Ma quelle bastano. Tutto è
avvolto in un senso di pace, di serenità. Quando sono arrivato stamattina,
molto presto, lui leggeva il giornale e lei ripiegava alcuni vestiti. Erano
entrambi seduti per terra in quella cameretta, cucinotto, salotto e
ripostiglio, alla fine dello spazio del negozio, che misurava poco più di un
paio di metri quadrati. Lui era sorridente, non mi aveva ancora visto. Poi la
moglie deve avergli fatto un cenno e lui si è girato verso di me, alzando la
mano sinistra con cui teneva il giornale e scandendo un, ancora sonnolento,
namastè.
Raccolti i vestiti ho fatto un giro di una mezz’oretta per
la citta vecchia. Pensavo a quanto spazio fosse sprecato, a quanto fosse invece
utilizzato male. Accatastamenti di rottami di qualsiasi genere, dalle stoviglie
rotte ai televisori, dal cofano bozzato di una macchina a svariati carrelli o
ruote rotti. Cataste che si innalzavano per svariati metri, davanti alle quali
non sapevo neanche cosa pensare: saranno lì da un giorno o da sempre?
Resteranno così finchè qualcuno come me, qualcuno che viene da fuori, si
metterà a toglierli o prima o poi si renderanno conto che quello spazio
potrebbe essere utilizzato in altro modo, come per esempio da parcheggio per le
decine e decine di motorini sparsi per tutta la piazza dell’orologio? Non era
la prima volta che mi facevo questa domanda, e sul momento sperai che fosse
l’ultima, che qualcuno mi avrebbe presto dato una risposta. Una vecchia, avrà
avuto più di ottant’anni, a cercare nelle cataste, e un ragazzo con un
carretto, nel vuoto della piazza di quell’ora, che spingeva e spingeva. Una
volta mi dissero che per fare un percorso di cinque chilometri, andata e
ritorno, per andare a rivendere i pezzi elettrici trovati, un ragazzo prendeva
cinque rupie. Neanche una decina di centesimi di euro.
Erano ancora le sette e mezzo quando decisi di tornare al
Forte, per mettermi seduto a quella scrivania, nella mia camera, che come
minimo misurava una decina di volte la casa del lavandaio, ma sicuramente non
era altrettanto accogliente.
--
Dicevo, 15.30. Sono al cesso. E, guardando l’orologio mi
viene in mente che Anand, uno degli inservienti del forte, ieri mi ha detto,
mentre cercavo di convincerlo che la pasta in Italia la lasciamo a cuocere
soltanto per il tempo scritto sulla busta e non “dai cinque ai dieci minuti in
più”, che
domani devi andare assolutamente dall’uomo delle aquile.
E non è uno scherzo, niente di poetico o romanzato. In
quella cucina, calda asfissiante, con il ventilatore che serviva soltanto a far
circolare ad intervalli, vampate di calore con quelle di spezie, mi ha detto
proprio di
Si, l’uomo delle aquile, devi andare a vederlo. Alle tre e
mezzo, domani.
Ed eccomi lì sul cesso, che guardo l’orologio e mi tornano
alla mente quelle parole. Vi assicuro che i momenti di raccoglimento
nell’ufficio di servizio, quello che si visita diverse volte al giorno, qualche
volta per pochi minuti, le altre per dei meeting un po’ più lunghi, sono sempre
impegnativi in india. Nonostante i fermenti lattici e quant’altro. Quindi corro
(in senso figurato, cammino in realtà, perché fanno 42° a quest’ora secondo il
meteo-cellulare che prende il dato, mi ha detto Shubham, alla stazione di
Jodhpur, dove fanno almeno un paio di gradi in meno che qui. Quindi qua ne
fanno almeno 45) dicevo, eccomi a correre verso l’uscita dell’ostello del
forte, per voltare verso destra, direziona mai presa prima, e salire sul
bastione delle aquile. Inizio a sudare, strada in salita. Caldo, pieno sole e
tanta polvere. Vento.
Lo vedo.
Decine e decine di aquile che sorvolano un uomo, là, in
lontananza.
Degli operai mi urlano: non puoi stare qua! E io rispondo
che sono un ospite, ma non do loro più di tanta relazione. Sono incantato.
Un uomo da solo, che lancia pezzi di carne nel vuoto. E
neanche uno tocca terra. Li lancia giù dal bastione. Li lancia in alto. Li
lancia. Non importa in che direzione o con che forza. Nessuno di quei pezzi di
carne è destinato a toccare terra. Sono quasi immobilizzato dalla bellezza
della scena.
Il sole, in lontananza, tratteggia soltanto i contorni di
quell’esile figura, sovrastata da una nuvola immensa, in gestazione continua,
di volatili.
Mi sblocco, mi avvicino. Non trovo la via, e le grida degli
uomini hanno fatto girare verso di noi la figura. Loro continuano a dirmi di
andare via. Lui mi indica, con una mano, una scala, per raggiungerlo. Non bado
a quelli che mi stanno ancora dicendo di non andare. Sono già sulla scala. E
arrivo sopra. Vicino a lui.
Resta indietro. Puoi stare là se vuoi. Nessuno è ammesso
qui. Ma se vuoi puoi restare lì.
Sono un ospite del forte. Sto qua nell’ostello. Anand mi ha
detto di venire.
Con uno sguardo stupito mi guarda e mi dice, allora vieni.
Mi avvicino. Su una delle merlature del bastione, sulla
pietra rossa, sono gettati dei pezzi di carne cruda che emanano un odore acre,
di sangue fresco. Senza mai smettere di lanciare quei pezzetti, grossi quanto
delle fragole, nel cielo, mi inizia a parlare tranquillamente. La sua voce è
bassa, roca, nonostante la sua figura mingherlina. Sembra più grande di me, ma
sicuramente non lo sarà. Il tempo, qua, logora in maniera diversa.
Prova, uno per uno, lancia giù.
Non vedevo l’ora. Ma non aspettava neanche che glielo
chiedessi. Per lui, io dovevo farlo.
Lo vedi quel tempio là? È un tempio induista, io sono
musulmano, siamo tutti diversi, anche la tua religione, non la so, ma non mi
importa. L’importante per me è il bene delle persone. Il bene di tutto e di
tutti i buoni.
Mi avvicino a quella carne che a contatto con la pietra
caldissima, in alcuni punti si è un po’ cotta, attaccandosi alla pietra. Ne
prendo una viscida manciata. È tagliata perfettamente, sembra quasi uno
spezzatino. È carne di capra, mi dice. Questo è un muscolo, questo è lo
stomaco. Loro preferiscono il polmone. Inizio a lanciare accanto a lui, la
carne al vento. Puoi lanciarla dove vuoi, un pezzo alla volta. Loro lo
prendono. Sempre. Lo prendono. Se lo lanci, sicuramente non arriva a terra.
Prova a lanciarlo in alto.
Lo lancio, e un’aquila, sembrava fosse già lì, con le zampe
lo agguanta immediatamente.
Gli piaci. Sei una buona persona. Non da tutti la vogliono.
Alle volte lasciano cadere il pezzo. Sono le persone non belle. Come ti chiami,
mi chiede. Pietro, e te? Latif, ma tutti mi chiamano l’uomo delle aquile. Oggi
c’è davvero tanto vento. Non sono abituate ad avere tutto questo vento. Ma non
lasciano cadere neanche un pezzo. Tu gli piaci. Mio padre faceva questo prima
di me e suo padre ancora prima. Ogni giorno cinque, sei chili di carne. Li
porto qua. Li do a loro. Lo vedi quel gatto che è vicino a te?
Mi sono voltato. Non avevo assolutamente visto quel gatto un
secondo prima.
Ecco, lui è la mia guardia. Se mi casca qualcosa lo mangia
lui. Vedi, anche se cade viene mangiato. Anche se qualche pezzo scivola dal
bastione, ci sono i serpenti. Non importa chi lo mangia. L’importante è che non
vada sprecato.
D’un tratto una delle aquile mi sfiora in volo e mi abbasso,
di riflesso.
Non aver paura, vuol dire che gli piaci proprio. Ed abbiamo
continuato per un po’ in silenzio, a gettare la carne al vento. Neanche un
pezzo toccava il suolo. Neanche uno. Loro lo prendono. Continuava a ripeterlo,
loro lo prendono. Vedi? Lo prendono.
Sto per prendere gli ultimi pezzetti di carne per lanciarli,
ma Latif mi ha detto di aspettare. Che ha una sorpresa. Torniamo indietro sul
bastione. C’è un piccolo riparo lì sopra, una finestrella incassata che dà su
un interno. Mi ha detto di sedermi lì. Obbedisco e mi siedo. Sono con il capo
chino, tanto è bassa la finestra. Lui si mette seduto accanto a me, con la
carne in mano. Gli ultimi due pezzetti. Polmone, lo vedevo dal colore più
violaceo. Sto sudando. Ti dovresti mettere una canottiera. E radere. Le ascelle
e il bacino. Aiuta. Non sei abituato a questo caldo. Mi dice.
Latif lancia un pezzetto di carne un po’ più in là, sul
bastione.
Hai problemi di stomaco. Problemi ad andare in bagno.
Dovresti mangiare meno peperoncino e più zenzero. Lo so. Lo sento. Come fai? Chiedo
io. Non me lo chiedere, non sono cose che si chiedono. Si sanno e basta.
Sono rimasto di stucco. Forse era facile in realtà, per uno
straniero sono i principali malesseri qua in India. Uno che suda come me poi,
ancora di più. Ma lo ha detto con una semplicità e una serenità spiazzanti. Un
aquila, d’un tratto si è posata vicino al pezzo di carne. Era maestosa. Ci
guardava. E Latif la guardava fisso.
Guarda le zampe, mi ha detto. Ora.
E d’un tratto ha lanciato un altro pezzo di carne in alto.
L’aquila ha spiccato il volo, aprendo le ali gigantesche, rivelando gli artigli
e spostando la polvere tutto intorno a lei, le zampe gialle d’oro al sole, gli
artigli lunghissimi luccicavano. Le ali che creano la notte per il tempo di un
baleno, su di noi.
Un istante. Ed è già volata via. Con sguardo assorto, forse
contento di aver condiviso una cosa soltanto sua, mi guarda, con lo stesso
sguardo sereno, ma concentrato con cui aveva guardato l’aquila poco prima. Mi
sorride. Ci stringiamo la mano. Quella mano ancora sporca di sangue, ma una
mano vera.
Una stretta di mano che ricorderò, la stretta di mano con
quel ragazzo, Latif. Un po’ saggio, un po’ indovino. Latif è l’uomo delle
aquile.
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