Mi disarma vedere la differenza che c’è qua tra un giorno e
l’altro.
La Fiera. Il giorno prima decine di ragazzi in canottiera,
in una babele di lingue urlate e emananti l’alcol della sera prima; con la
stessa maestria di mastro Geppetto nell’intento di fissare il collo alla testa
di pinocchio le loro mani sembrano quelle dell’Architetto di tutte le cose
quando ballano sulle pareti in montaggio e le dipingono danzando tra gli stand.
L’odore di sudore inonda le narici dell’avventore e il sottobosco di cartone e
plastica da buttare, con un’erba di chiodi sparsa a ciuffetti per terra basta
che uno tra i tanti (ragazzi nell’anarchia di nessuna differenza tra razza,
colore, età e lingua) attacchi alle casse di questo luogo in mutamento una
musica inaspettata, Einaudi, Ludovico, Le Onde, e tutto diviene più reale di
ciò che gli occhi potevano percepire. Il surrealismo del momento, incastrato
dalla bacchetta magica della musica, trasforma l’intorno in un bosco iper-contemporaneo,
abitato da ballerine e artisti di strada, che in ogni gesto e in ogni parola
emanano arte, anche se (forse grazie a dio) senza pretesa di infusione
culturale.
Accanto a loro, in questo bosco incantato, passa d’un tratto
l’ombra che rilascia morte e stridore di denti, la vera Fiera latina, la bestia
che è sempre pronta a mordere; apparentemente non si mostra che in qualche
donna attempata, vamp e super-truccata col fucile a canne mozze (come disse il
saggio) già con in tacchi, professionista nello slalom tra i buchi del
pavimento che, non ci preoccupiamo, domani sarà coperto da una moquette grigio
topo di fogna.
L’idea di ciò che accadrà domani si vede soltanto attraverso
quel vestito rosso, quei capelli tirati all’insù e quella penna che indica pareti
e persone. Come un arbitro senza fischio assegna schiavitù e mansioni,
appuntandole in una scrittura rotondeggiante da liceale anche sul taccuino che
ha nella mano sinistra, non stretto tra le dita, in modo da far asciugare lo
smalto sulle unghie, probabilmente tratto dal sangue di una di quelle fate del
bosco.
Sostanzialmente in quel momento la sfida è tra le decine di
creature che danzano nel bosco e lei, la Fiera vera e propria, nella sua forma
iniziale.
Il giorno seguente la bestia ha divorato tutto e tutti. Da
un’immagine di danza siamo passati a una marcia funebre; sono state posate le
moquette grigio topo di fogna e dove ieri era passata la Fiera si sono creati
lunghi corridoi rosso sangue. La processione per la morte non vista e non
considerata - di tutta la vita che c’era il giorno prima – è composta da 2
tipologie di esseri: portafogli e macchinette di – tutto - usa e getta. I
portafogli pieni si aggirano per il bosco bruciato, tramutato in casinò. Le
luci che non fanno distinguere l’ora ed il puzzo di insalate russe e panini al
cetriolo con maionese stantia induce ad una fame malsana. I portafogli hanno la
pancia. Tutti. Piena di maionese stantia. Si avvicinano alle macchinette.
Guardano e, a volte, comprano. Dopo qualche passo gettano via. Per giorni così.
Alle 18 chiude.
Alle 9 la mattina dopo ricomincia.
Alle 18 chiude.
E avanti così, finché si crea, con tutti gli scarti del
compra-vendi-getta, una montagna al di fuori della fiera, della quale nessuno
si è accorto. Non i portafogli, non le macchinette.
Se ne è accorta solo quella creatura del bosco, schiavizzata
che, in catene, la sera porta fuori dal casino-casinò tutto il vomito di un
corpo morente che è quello della Fiera nella sua forma bestiale.
La creatura del bosco ammucchia, ammucchia. Lo sa, si crea
una montagna.
Alle 12. La montagna di rifiuti che c'è fuori crolla sulla Fiera, con un mio sospiro
di sollievo, sono tutti dentro.
PiM
PiM
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