domenica 23 dicembre 2018

Pensieri in (sulla) manovra. Ma noi? Fermi.


Costretto a letto per il brutto malanno al quale purtroppo sono andato in contro, ieri ho assistito, grazie ai fenomenali mezzi tecnologici, alla seduta del Senato che è durata fino a tarda notte e durante la quale si è "discussa" la manovra. Punto primo: non ero mai stato presente, se non per quei piccoli momenti trasmessi durante i notiziari, ad una seduta in modo da annusarne profondamente le modalità. Riconosco che sia strabiliante e inclusivo avere un canale in cui riprendono e condividono il tutto. D’altra parte forse avrei preferito non vederla. 
Non facendo di tutta l’erba un fascio, anche se di fasci ce n’erano da fare e anche visibilmente già fatti lì dentro, nel Senato non ci si ascolta. Il testo della manovra arriva tardissimo, con ressa di senatori della opposizione davanti alle porte delle sale dove il governo riunito metteva i punti sulle “i” al testo stesso, con conseguente impossibilità di prendere in esame tutto il testo con la dovuta attenzione.

Quello che voglio dire è che i senatori, nonostante siano persone alle volte estremamente capaci, non avevano il tempo di leggere la manovra sulla quale il governo ha anche posto il voto di fiducia e quindi bloccato il voto positivo. Era quindi necessario che tutti votassero per l’approvazione (si immaginino gli improperi, offese e agitazioni che non riporterò, fino ad arrivare a palpate considerevoli a senatrici non consenzienti), per non far cadere il governo. Imbarazzante. In sostanza le opposizioni sono state costrette dalla maggioranza a votare una legge, quella di bilancio, con la quale si decide del destino economico del paese, con delle norme che ne regolano l’andamento anche fino al 2030 e oltre, a scatola chiusa. 

È stato un obbligo votare a favore, senza aver avuto la possibilità in termini di tempo, di leggere le 195 pagine della manovra finanziaria. 

C’è necessità “obbligo”, quando si parla di decisione di altri sul nostro futuro, non sia una parola contemplata, perché si passa da decisioni sulla cosa pubblica a carico di pochi.
Mi sbaglierò, lo spero, ma si chiama oligarchia. Recita la traccani: 
“Il dittatore non poteva durare in carica oltre sei mesi; aveva 24 littori, era nominato su richiesta del senato dai consoli.“
Oggi i ministri sono 18, meno di 24.
E noi stiamo qua. Incapaci di far altro che porre un like o concepire una frase (non troppo oppositiva, mi raccomando) di 140 caratteri.

(Pietro)

venerdì 16 giugno 2017

Il Garage Indiano_15 I ricordi poetici


E fu sera e fu mattina del 18º giorno. Che poi avranno messo prima la sera perché suonava meglio. Potevo iniziare anche così: i giorni di libertà se ne sono andati. Ma finalmente sono anche tornati.
E, come mi succede molto spesso, sono rimasto tremendamente indietro con i quotidiani aggiornamenti dai quali riuscite a capire che sono ancora vivo e vegeto. Ma non cercherò di rimuginare gli eventi passati perché, evidentemente se non ho scritto, non c’era niente su questo livello di coscienza nel quale mi ostino a protrarre, non senza magnum gaudium, i fili di un ragionamento che, un po’ come la carta igienica regina, non hanno né inizio né fine. Tuttavia devo riconoscere che la malinconia si fa sentire molto, quella malinconia provocata essenzialmente dalla solitudine. Forse è stata persino accentuata dal fatto che non abbia scritto, un po’ mi fa sentire a casa questo: molti mi scrivono, in privato oppure sui social e sono grato a tutti perché vi assicuro, come dice Irene, che questa è una prova di resistenza. Qualche giorno fa, in risposta a un messaggio, avevo iniziato a scrivere un commento che però merita più di qualche riga su Facebook.
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Mi ritrovo a scrivere per non sentirmi solo, anche se solo in realtà non lo sono. Forse mi trovo a scrivere per non dimenticare. Ho una memoria corta, troppo, e vivere, e scrivere, mi aiuta a non perdere questo tesoro che sono ricordi flebili, poetici, quelli che alla fine non è che ti rimangano in testa bene, che li scordi o meglio, tende a farlo. Ma perché succede questo? Perché diventano parte di te, diventano parte del tuo subconscio, vengono interiorizzati e vanno a far parte della tua persona nei suoi aspetti più profondi. Ecco, forse anche per paura. Dell’immensità e della diversità alla quale mi trovo di fronte ogni giorno. Probabilmente scrivo per esorcizzarla ma, bada bene, non per estirparmela da dentro.
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Questo era l’inizio di risposta che avevo scritto quel giorno. Lo trovo corretto, ma adesso, che mancano due giorni ad abbandonare questa splendida città, Jodhpur, guardo le cose con occhi un po’ diversi: come nel telefilm Scrubs c’è una straordinaria puntata sull’addio, in cui il protagonista, (occhio che qui c’è uno spoiler) alla fine della puntata si rende conto di guardare le cose che verranno abbandonate da lì a poco, quelle che sei certo non faranno per un bel pezzo più parte della tua vita, forse mai più, e dicevo di guardarle non tanto con nostalgia, ma con simpatia, come a dire “ci sono passato, e se sono diventato ciò che sono e anche grazie a questa esperienza, bella o brutta che sia”. Ed è un po’ così adesso che guardo Jodhpur: sono più che sicuro che farà parte del mio futuro, e ci sono stati alti e bassi in questi giorni: la fatica di essersi dimenticato una finestra aperta quando hai già fatto cinque km nella città blu e per non spendere i 60 cent di risciò che potrebbero portarti almeno fino alle porte del forte, ti fai una sudata epica, maledicendo un po’ come Benigni in Berlinguer ti voglio bene. Oppure quando masnade di bambini ti accerchiano e in qualche maniera ti invadono il cuore. Oggi ad esempio ero lì, seduto subito fuori dalla forza del forte, alle 6:30 di pomeriggio cercando di trovare la forza per andare a un famoso lago accanto alla città che, magari fa anche cacare, però per fare qualcosa di diverso, mi ero messo nella testa di andarci. Provo a chiamare una macchina ma ci avrebbe messo 10 minuti ad arrivare più altri 25 minuti ad arrivare fino al posto dove la strada tocca il lago. Desisto e decido di andare a mangiare in un posto nuovo, finalmente dove fanno i noodles.
A metà del viaggio, passando dall’altra parte della città dei bramini, chiedo all’autista di fermarsi. Non avevo mai visto il quartiere musulmano, dove mi trovavo, e quale giorno migliore di oggi? Che è il primo vero e proprio giorno dell’inizio del Ramadan?
Se volete non sentirvi soli, nella disperazione di un abbandono della speranza, andate lì, dove i bimbi sorridono e i muratori lavorano. Senza mangiare né bere per un giorno intero. Qualche minuto prima delle sette e mezzo. Capirete quanto di bello c’è nel mondo anche non avendo niente.

domenica 11 giugno 2017

Il Garage Indiano_14 Sorridi


Perché non l’avete mangiata? Mi rivolgo alla Giugi band, che stanno tutte qui, a guardarmi, in coro, proprio fuori dalla mia camera, lungo il corridoio che si staglia fino all’ingresso delle scale per scendere giù al forte. Se c’è una cosa che mi fa veramente schifo non sono i serpenti, come Indiana Jones, non sono i ragni, come alcuni miei amici, non sono più le falene, come per me un tempo era: sono le schifosissime bastarde squallide e viscide cavallette. Ma perché, visto che era qui accanto a voi, compagne di Giugi, perché non l’avete mangiata? Esco per fumarmi l’ultima bidi, dopo una serata di relax completo, sento già la stanchezza che si avvicina e compenetra nei miei pensieri la stessa voglia di ieri sera di andare a letto, quando mi si ghiaccia il sangue nelle vene e in quei 20 cm tra me e la porta appena chiusa alle mie spalle ecco che sento il maledetto ronzio. Si alza in volo, il verde, con quelle zampette lunghe e affilate, con quegli occhi spiritati, la peggiore nemica dell’uomo, la cavalletta. Fa un giro intorno a me e io agito le braccia e in qualche maniera diventa un maestro di step sul posto per qualche secondo, finché lei, che non è che abbia più paura di me di quanto io ne ho di lei, e che si è soltanto stancata di stare qui, vola un po’ più in là, al corridoio accanto. Rimprovero tutta la banda ma alla fine capisco che, ok è più grande di voi, forse non ce l’avrei fatta neanche io a mangiarla.
Brutti scherzi della solitudine. Trovarsi a chiacchierare tra sé e sé sulle sorti di una cavalletta che doveva essere mangiata da dei giechi attaccati alle pareti. Dare loro lezioni di stile. L’eccitazione e il brivido mi fanno venire la pelle d’oca con le quali trovo la forza di tornare a scrivere, dopo qualche giorno. Non è che non volessi scrivere, ma se non succede niente ne vale davvero la pena? E mi potreste obiettare, ma come fanno succedere niente? Sei in India! Ma non è proprio questa la cosa straordinaria? La capacità adattativa dell’uomo.
Arrivi in un posto, a migliaia di km di distanza, e sei affascinato talmente stupefatto da tutto ciò che ti succede intorno che non fai altro che vomitare istante dopo istante su di un foglio, per non dimenticarlo, quello che hai dentro. Poi, senza che tu l’abbia chiesto, eccoti a ritrovare una normalità (non senza i dolori della mancanza, della nostalgia, del ricordo e della lontananza), ma che normalità è, o meglio, puoi iniziare a pensare che lo sia. Che in qualche modo lo possa diventare. Per di più, ti piace anche quello che fai, là, lontano. Ti piace a tal punto che sei pronto con tutte le forze a rinnegare quello che stavi facendo prima, quello a cui stavi mirando. Non che poi fosse tanto chiaro o straordinariamente rilucente. E non sto parlando di relazioni interpersonali con le persone che ti stanno a cuore davvero: quelle non smetteranno mai di esserti dentro. Arrivi soltanto “talmente in là nella solitudine che tornare indietro sarebbe doloroso più che andare avanti” (semi citazione shakespeariana della tragedia scozzese, caspita quante ne so, ma questa la uso spesso).
Dicevo che ero quasi pronto per andare a letto, adesso sono le 11:03 di sera, orario straordinario qua per me, soltanto per me, per essere nel mondo dei sogni. Tuttavia la cavalletta ha fatto sì che una botta d’adrenalina pervadesse i miei sensi e facesse sì che io potessi trovare un pretesto per scrivere. Proprio di questo: io adesso sarei già letto da una mezz’ora. Gli orari di Jodhpur sono completamente diversi dai miei. Quelli italiani non c’entrano niente più, ormai. Sono tre ore e mezzo di fuso orario da tutti coloro con cui posso parlare italiano, e Jodhpur resta un’ora e mezzo avanti a me: se io sono pronto ad andare a letto adesso Jodhpur andrà a letto quindi tra un’ora e mezzo, forse. Dico tra un’ora e mezzo perché la città si accende quando io apro la porta di camera per rientrare. Non mi sento più parte dell’una e dell’altra cosa. La città di Jodhpur, quella vera, quella abitata da persone normali, persone che sorridono.

Inciso: Ho letto oggi un articolo illuminante, sempre da tenere a mente: se con il volto sorridi, e sorridi per davvero, il tuo cervello recepisce il movimento dei muscoli del volto come un segno positivo, quindi entra in un circolo vizioso per il quale stai meglio se hai sorriso in precedenza e continui a sorridere nella stessa maniera anche nei momenti a seguire. È una cosa straordinaria. Ho già iniziato a provare a farlo da un paio di giorni, la mattina, quando in realtà non ci sarebbe niente da sorridere perché sono qua, da solo, a 6600 km da casa, non potendo parlare inglese perché non lo sanno, ma cercando di essere inclusivo il più possibile verso i miei “ospiti”. 

Sarà forse per questo che qua ci sto così bene? Forse perché, senza nessun ordine da rispettare o senza alcun fastidio da considerare, le persone sorridono: così, sorrido anch’io; e ci ritroviamo entrambi con il cervello che fluttua nella stessa direzione: quella sì, dell’insicurezza, ma anche quella della certezza di non aver problema nella creazione di un proprio futuro. Ripenso a Humphrey, un ragazzo conosciuto qualche giorno fa: ci siamo visti per la prima volta allo stepwell caffè americano, di New York, la cui famiglia commercia da qualche tempo con l’India nel campo delle stoffe dei tessuti. Che problemi vuoi che abbia? Sempre vestito elegante, sempre dal capello impeccabile. Quali sono e quali saranno le sue mancanze? Ogni pomeriggio si gioca a tennis, ogni mattina fa finta di lavorare, ogni sera esce a bere una cosa e a mangiare in un posto costoso. Ma non sorride. Mai.

Chi sta meglio? Sorridi. Starai meglio te.

mercoledì 7 giugno 2017

Il Garage Indiano_13 Un volo


Che concezione dello spazio deve avere un uccello? Un’aquila, ad esempio, ma anche un piccione? Forse baserà i suoi spostamenti sulla fatica di muoversi da un punto all’altro, forse non si renderà conto della potenza che c’è nel potersi spostare liberamente. Mi viene in mente il Gabbiano Jonathan Lvingston, di Bach. Nasce da una pretesa da nulla, uno scherzo: far dono ad un gabbiano della voglia umana di superare i propri limiti. Straordinario. Assolutamente liberatorio. Con tutte le sfide che poi è costretto a fronteggiare: sociali fisiche, ma soprattutto con se stesso.

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Sono seduto a bere una birra sul punto più alto del forte: da qua si vede l’intera città blu, la città dei bramini. Forse non tutti sanno che in passato i bramini non avevano una grande funzione produttiva per la città, ma fondamentalmente teologica e religiosa. Durante l’anno, sarà dato dal gran numero di divinità indù esistenti (un ragazzo a cena ieri sera mi ha detto che probabilmente non esiste nessuno che conosca tutta la storia della religione indù) o da qualche altro fattore del quale non sono a conoscenza, comunque gli indiani antichi festeggiavano più di 1000 volte un qualche evento religioso durante l’anno. Sono almeno tre festività al giorno: i bramini erano coloro che si occupavano dei templi e delle festività. Raccoglievano offerte che non erano quasi mai in forma di denaro, ma di altri tipi. Erano i prediletti del maragià, che li aiutava con donazioni perché rappresentavano l’aiuto, la porta, il guardiano terreno attraverso il quale imbonirsi gli dei. Questi sono i bramini, questo erano. Oggi è diventata, o meglio è rimasta, una casta, alcuni assolvono alla funzione di un tempo, ormai altri hanno lasciato da parte l’antica funzione. Ma perché blu? Blu perché era facilmente distinguibile, blu perché così le altre caste, meno pure, potevano riconoscere fin da subito una casa di un bramino e non toccarla, per non renderla impura come erano loro. Come ogni tradizione, come dice mio fratello, c’è sempre un fondo di mera necessità storica. Il blu, anche se non ho mai capito il perché, rende l’ambiente interno più fresco. E, sarà per suggestione, ma quando mi trovo nel Brahampuri, quella è la sensazione che sento: freschezza.

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È calato il sole, avevo iniziato questo discorso cercando di tratteggiare un minimo i miei pensieri sulle aquile che viaggiano intorno al forte in questo momento. La situazione adesso è diversa, cani ululano in lontananza, in direzione del deserto. Sotto di me il ristorante dove vado a mangiare tutte le sere, quello del forte, ha acceso le luci e pian piano la città blu che vedo, da quassù, sta prendendo vita: dei viottoli minuscoli che nascono dall’intersezione di una composizione organica del tutto incontrollata si stanno animando della frescura notturna. Non ho mai vissuto questa città, per ora sono sempre stato qua dentro la sera. Il desiderio di uscire è forte, ma fa anche un po’ paura: ogni volta che ci si affaccia verso una nuova esperienza, come potrebbe essere stasera andare in mezzo alla città dei bramini di notte, nasconde un milione di incertezze. Resta al singolo la scelta di gettarsi, un po’ quel tuffo di cui parlavo qualche giorno fa, oppure restare nel custodito. Chiuso tra le mura del forte dove non c’è niente da temere. Niente è detto, la scelta è soltanto qui e adesso, domani però, è sempre da ricordare, potrebbe esser stata un’occasione persa.

domenica 28 maggio 2017

Il Garage Indiano_12 Piove


Ieri sera, dopo il negozio di dolciumi, Schubham è passato a prendermi in macchina e siamo andati a cena.
C’erano lui e sua moglie e un’altra ragazza in macchina. Abbiamo preso una cosa da bere in uno di quei posti indiani che:
non servono alcol,
hanno un menu ridottissimo,
non sono belli,
sono in un punto introvabile della città per chiunque, anche per gli indiani,
hanno quell’aria condizionata fastidiosa che quando esci l’unica cosa che provi è il mal di gola.

A cena invece siamo stati a On The Rocks. Conosco bene quel posto, ci porto sempre gli studenti quando veniamo dall’Italia tutti insieme, si mangia un pollo tandoori veramente molto buono. Di solito però lo ordiniamo poco piccante, ecco, ieri sera, chiaramente, stando con altri indiani, e condividendolo con loro, non potevo sfigurare chiedendo di farlo poco piccante. Oggi mal di pancia fotonico. Ma torniamo a ieri sera: siamo a metà della cena, che hanno servito l’aperitivo e stanno già portando i piatti, la discussione procede tranquilla, e grazie alla birra riesco anche a parlare un inglese dignitoso, quando inizia a piovere.
Una piccola parentesi sul mio inglese: non è soltanto una mia sensazione, sarà capitato anche a voi che con una birra in corpo qualcosa si innesca nel vostro subconscio, qualcosa che disinibisce la paura che abbiamo nella composizione logica delle frasi in un’altra lingua. Ecco, per me la birra quella sera ha fatto proprio questo: il mio inglese era perfetto. Potrei dire shakespeariano, ma forse shakespeariano pareva solo a me. Comunque riuscivo ad esprimermi e a farmi capire molto fluentemente.
Fatto sta che inizia a piovere, come dice Forrest Gump, quella pioggia fitta fitta che ti inzuppa, se ricordo bene la citazione (una persona normale sarebbe andata a cercare la citazione su Internet, i punti sono due: (<anche questi) uno, non sono una persona normale, non so se ve ne siete resi conto dopo aver letto 12 capitoli di questa cosa; due la connessione Internet in India è esattamente descritta nella frase di un mio amico di infanzia al nostro "primo approccio" ad Internet di sempre: eravamo a casa mia, bambini, con i capelli a caschetto e le magliettine con le tartarughe ninja e la sua frase fu, essendo lui in quel periodo il saputello della comitiva: ragazzi, vi avviso, Internet è una cosa molto, molto lenta.)
Fatto sta che inizia a piovere, è già la seconda volta che lo dico e mi perdo nei meandri dei discorsi randomici. Per farla breve ci spostiamo dentro e il primo commento della seconda ragazza è: però non c’è l’aria condizionata accesa, potevano accendere la prima. Non so bene perché mi sia rimasta in mente questa cosa, ma io preferisco il caldo: non riescono a capire che quando entri in un posto, se la temperatura è tanto diversa rispetto a quella che trovi fuori, quando esci o hai troppo freddo oppure hai troppo caldo? Un altro esempio può essere la macchina: loro, con il caldo che fa notoriamente sempre (sempre e comunque) in India, hanno continuamente l’aria condizionata accesa e sparata a 1000, come si suol dire. Perché? Starai meglio per i primi cinque minuti in cui entri in macchina, ma poi quando esci stai male per tutto il resto del tempo! Non ti converrebbe forse, in decine di anni di storia indiana in cui avete l’aria condizionata, non vi siete resi conto che forse stareste meglio a non accenderla proprio? Poi su questo discorso ci sono anche gli estremisti: (l’ho fatto anch’io, lo ammetto anche oggi) la doccia calda. Però la trovo una cosa molto zen: devi fare la doccia calda e devi stare sotto finché non arrivi al punto di equilibrio, quando non ti dà più fastidio il calore dell’acqua. Se stai sotto la doccia calda soltanto per il tempo del lavaggio e senti ancora il caldo dell’acqua quando esci forse è perfino peggio di farla fredda.
Inizia a piovere, e siamo a tre: usciamo da quel cazzo di ristorante e saliamo in macchina con la ragazza. Vediamo se riesco ad arrivare alla fine di quello che volevo dire: la ragazza non può accompagnarci fino al forte, accostiamo un risciò e gli urliamo di fermarsi da una parte. La pioggia è diventata “quella grossa che ti ammacca”(di questa citazione di Forrest Gump sono sicuro perché quando ero bambino me la immaginavo ammaccare gli elmetti dei soldati in Vietnam). Per farla breve saliamo sul risciò quando ci sono già 30 cm d’acqua su tutto il manto stradale. I motorini che sembrano barche, i pedoni Gesù Cristo. Cosa fare? Impaurirsi? Essere terrorizzati da tutto ciò? Aver paura di non sopravvivere, e di non sapere come arrivare a casa?
Ci siamo messi a ridere per tutto il resto del viaggio. Non una risata scomposta, come sarebbe facile pensare. Una risata felice, serena, tranquilla. Una risata di quelle che sai che tanto andrà tutto bene. Ricordo la prima volta che sono venuto in India, dal 22 luglio 2012 fino all’11 settembre 2012, sostanzialmente mi sono fatto tutto il periodo monsonico indiano. E, sarà stato perché quella è stata la prima volta che sono venuto qua, sarà stato perché ero disposto, ventiquattrenne, a qualsiasi cosa mi fosse capitata davanti. Ma quell’India, quella monsonica, a me è rimasta nel cuore. E sono stupefatto dell’affinità che anche in questo io abbia con gli indiani: sarà un’affinità creata, perché vengo qua da tanto tempo, e non elettiva. O forse elettiva, perché doveva e poteva essere solo soltanto in questa maniera. Non importa, gli indiani, quando piove, sono felici. Ricorderò per sempre quando io e Irene, qualche giorno prima dell’11 settembre 2012 (data del rientro, vedi sopra), siamo stati insieme a vedere il Taj Mahal. Bellissimo, poi visto con lei è valso miliardi di volte in più. Ultimo Mahal del complesso da vedere, entriamo, e all'uscita il diluvio universale. Una folla di gente sulla porta che non si muove, ma che sorride guardando fuori. Nessuno è realmente preoccupato. Alcuni, delle coppie perlopiù, o dei bambini, escono nella pioggia per goderne. Per arrivare oltre la discesa che porta al parcheggio. La discesa è tra due muri pieni, unica uscita da tutto il complesso del Taj Mahal. Io e lei ci guardiamo, sorridiamo, probabilmente lei mi avrà detto “Si va?” e in un istante ci siamo ritrovati zuppi, correndo, con l’acqua fino ai polpacci, per la discesa che sembrava un fiume, ma contenti.
Entrati in macchina ci hanno chiesto gli autisti “avete goduto della pioggia?”.

venerdì 26 maggio 2017

Il Garage Indiano_11 A metà


73. Proprio 73, abbiamo fatto il conto insieme.
Mi ritrovo lì, seduto insieme a lui. Insieme al bramino. I suoi occhi che mi guardano sereni, lontanamente lucidi, con un sorriso sincero. Ha pochi capelli in testa, su quella testa affilata, due occhi grandi dietro a degli occhiali cambiati ogni cinque minuti, per vedere da lontano e da vicino. Guarda un foglietto che ha in mano, mai distratto. Scambia due parole con il fratello della moglie seduto qualche metro più in là. Il fratello della moglie sembra più giovane di lui, non parla inglese quasi per niente, ma penso che riesca a capirmi. Ha uno sguardo stanco, come se non avesse dormito la scorsa notte, come se avesse pianto da sempre. La piattaforma su cui stiamo seduti si chiama otta, è uno spazio tra la strada e la casa, un po’ come tutto qua in India. L’india, una terra a metà. Come i ghat di Varanasi, che non si sa bene dove finiscano, non si capisce dove entrino in acqua. Non si capisce, o forse non c’è da capire, dove finisca l’acqua ed inizi la terra: in una stagione l’acqua ricopre tutto, dopo qualche mese l’acqua non c’è proprio. Il loro modo di dire sì, con un cenno della testa, è un ciondolio, nel quale la testa fa come una campana, oscillando il mento da una parte all’altra. Dopo anni di esercizio riesco a capire quando siano d’accordo con quello che sto dicendo o meno. Se vedessimo la stessa cosa da noi sarebbe a significare un no, sicuramente. Ma qua, la variazione di oscillazione del mento di pochi gradi distingue il sì dal no, non ne sei mai pienamente convinto: un cenno di assenso o dissenso? Forse un qualcosa a metà. Come quella piattaforma dove stavamo seduti, non pubblica, non privata.
Come lo sguardo del bramino, non contento, non triste. A metà. Mi ha appena detto che lo stesso giorno in cui lo sono andato a trovare sua moglie, dopo essere stata a letto per tanto tempo, molti anni, se n’è andata. Quando me l’ha detto mi si è spezzato il cuore, in qualche modo (assurdo) credevo che ci fosse relazione tra il fatto che io fossi stato lì e quella dipartita. Un po’ come successe anche per la mia bis zia Zaira: non lo ricordo bene, perché avevo solo nove anni quando morì suo marito, lo zio Paolo. Avevo nove anni e quell’anno era nato Leonardo, mio fratello. Era un segno del destino, un piccolo bambino quando un anziano se ne va. Arrivato come a prendere il suo posto nella vita delle persone che gli volevano bene. La zia Zaira ha sempre amato con tutto il suo cuore tutti noi, i nipoti e bisnipoti (e ne aveva tanti! Una volta, con la nonna, facemmo il conto, erano più di 30) ma Leonardo, Leonardo le era nel cuore un po’ di più.
Così per la moglie del bramino: lo stesso giorno, poteva capitare in ogni altro momento, ma è successo proprio quel giorno.
Non essere triste, mi dice, non siamo fatti per continuare a stare in questo mondo. Nessuno continuerà per sempre a starci, sta sorridendo mentre mi dice questo, non riesco a crederci. Sorride, e su quella piattaforma coperta da un velo colorato e petali di fiori è posta una fotografia della moglie. Il bramino la guarda, è stata la migliore delle migliori amiche che abbia mai avuto. Non potevo desiderare di meglio.
Siamo stati insieme tanto tempo, 73 anni.

mercoledì 24 maggio 2017

Il Garage Indiano_10 Gioia


Il decimo giorno. Importante.
Il decimo giorno di questa avventura indiana. Di questa cosa che già conosco, ma che non riesco mai ad imparare. Ci sono sensazioni che non sono spiegabili. Va bene gli odori, va bene i sapori, quel piccante che ti brucia in gola e continua a bruciarti dello stomaco e poi quando lo vedi all’uscita… E vi assicuro che non è facile quando esce. Poi ci sono quelli fortunati invece, che non hanno mai avuto problemi in queste terre. Io ne ho, e continuo a tornarci inspiegabilmente per il fascino del quale mi sento inondato quando sono qui. Ma non è tanto questa la cosa importante. Quanto quelle piccole cose, che magari una volta hai sentito dire, che magari provi a reputare vere soltanto perché le hai elette in un libro. Poi quando le trovi, quando hai l’occasione di rendertene conto personalmente, ti abbagliano. Non sono cose spiegabili.
Sono appena tornato da una cena tra amici, ho parlato con Irene, la cena è andata bene, lei era a lavorare, io a mangiare pollo tandoori, senza dire al cameriere che lo volevo poco piccante, soltanto lasciandosi trasportare da quello che sarebbe potuto essere. E lei, anche di domenica a lavorare, se non ci fosse lei che mi spinge, mi porta ad avere la forza di fare, probabilmente non ci metterei la forza di volontà che ci metto. Ma probabilmente neanche la metà.
Il decimo giorno di questa avventura indiana è una domenica.
Essendo domenica, nonostante qua in India molti lavorino, ho deciso di prendermi una giornata un po’ più libera: mi sono svegliato e di mattina ho deciso di andare a fare una passeggiata. Nei giorni scorsi vedevo dal forte quelle mura, che non sono proprio quelle attaccate al forte ma sono quelle esterne, probabilmente una nuova recinzione fatta da chissà quale maragià in un secondo momento. E comunque, anche se la mia camminata non è che sia durata tantissimo, saranno stati al massimo una 20cinquina di minuti all’andata e altrettanto al ritorno, Shubham stasera, quando io l’ho detto a tavola, è rimasto scioccato dal fatto che ci fossi riuscito. A me, in realtà, pare di non aver fatto chissà che.
Ma chissà che è stata invece quella sensazione, seduto su una delle rocce più alte del monte accanto al forte di Jodhpur, una di quelle rosse, monumentali, che si sporgono sulla vallata, dicevo quella sensazione di libertà che mi ha dato il panorama infinito davanti a me. Forse in lontananza per la nebbia sempiterna il cielo si confondeva con la terra, ma ero lì, senza nessuno intorno, a guardare fin dove l’occhio poteva arrivare. Sulla sinistra il forte, sulla destra il deserto e in mezzo quelle poche case che rimangono esposte a tutti i venti caldi dal Pakistan. Avevo deciso di fare una camminata di qualche kilometro, uscendo dal forte e scendendo verso la città poi d’improvviso mi sono trovato a voltare a sinistra e a salire per una scala ripida che, vista la pioggia della notte passata, aveva dei pezzi in piano completamente fradici, delle enormi pozzanghere. Mi sentivo un genio a passare sulle rocce che facevano da corrimano. In realtà, girandomi un attimo verso il basso, capivo che era una cosa del tutto comune, ma la sentivo mia. E arrivato su quella roccia, in cima, nessuno mi avrebbe raggiunto. Forse perché non era la più alta? Forse perché per gli altri non meritava così tanto. In ogni momento avevo paura che un serpente uscisse dalla fessura tra delle rocce. Ma non successe e stetti lì, qualche tempo, nell’abbaglio del panorama che mi si stagliava davanti.
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Tornando verso il forte mi sono fermato al vivaio del parco: non l’avevo mai visto prima e per caso, per la mia solita e insensata curiosità, sono entrato da quel cancelletto di ferro. Una mezza dozzina di donne erano sedute per terra intorno ad un mucchio di rena alto quasi 1 metro. Tutto intorno, cosa del tutto impossibile da vedere dall’esterno, tanto i cespugli erano alti, degli enormi bancali, sembravano quasi infiniti, pieni di sacchetti neri grossi quanto un avambraccio, riempiti di terra da ognuno dei quali spuntava una piccola piantina. Non so perché, ma dopo una decina di minuti, saranno stati i sorrisi delle donne, sarà stato il chiedere, fare e ricevere fotografie, mi sono ritrovato seduto con loro a riempire i piccoli sacchetti di terra. La meticolosità con cui la donna alla mia sinistra mi insegnava come battere il piccolo sacchetto per terra per rompere il panetto e far spazio alla nuova terra che avrei messo dopo, mi ricordava, non so per quale ragione, quei momenti davanti alla porta di casa di mia nonna, quando le ceste erano piene di pomodori e lei e la sorella di mio nonno passavano quei pomodori per interi pomeriggi, finché non erano finiti, preparando la “passata” per tutto l’inverno. Una dedizione sovrappensiero, un’azione che viene fatta dalle mani esperte in modo apparentemente automatico, quando ti accorgi che l’attenzione al dettaglio invece è meticolosa: una radice che spunta fuori, un pomodoro da epurare da una piccola parte marcia. Le mani callose e dolenti per l’artrosi, lo sguardo sereno ma consapevole dell’importanza di ciò che si sta facendo adesso per il periodo futuro.
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Succedono delle cose, in India, che non si possono né spiegare né descrivere. Cercherò di raccontare ciò che è successo al meglio possibile, ma non sarà sufficiente per far capire quello che ho provato. Sarebbe irraggiungibile, ma vi assicuro che è una cosa che nella vita deve essere provata, per forza. Più che per forza è per capire, per capire lontanamente ciò che sentono e che provano coloro che fanno del bene ogni giorno.
Sono davanti al più grande negozio di dolcetti di tutta Jodhpur. Sto aspettando Schubham e sono le 7:30 di sera, andiamo a cena da qualche parte. È stato carino a propormi di andare con lui e i suoi amici, sa bene che altrimenti avrei cenato da solo. Un bambino mi si avvicina e mi fa il gesto, con la mano alla bocca, di mangiare. Indica negozio di dolciumi. È un bambino molto povero, vedo in mezzo al guardrail che divide le due grandi carreggiate di quella strada nuova della città, la sua famiglia: il babbo mamma e due piccole sorelle, più piccole di lui. Le macchine sfrecciano loro accanto senza accorgersi della loro presenza. Soltanto quando c’è il rosso, allora la mamma prende in braccio la sorellina più piccola, minuscola, nuda, non per causare pietà, ma probabilmente perché quei pochi stracci sporchi che hanno lì sono tutti i loro averi. Una guardia, addetta alla sicurezza del negozio di dolciumi, manda via il bambino, mi sorride. Il mio sentore passa in un istante dall’imbarazzo alla certezza: vado dentro al negozio, chiedo quanto costa un box di dolci, 200 rupie, neanche tre euro, me lo faccio riempire ed esco. Passo la carreggiata e mi avvicino alla famiglia, sorrido al padre, gli passo la busta con i dolci e gli dico: enjoy. Probabilmente non capisce neanche l’inglese, non mi importa. Torno subito dalla mia parte della carreggiata, cerco di non farmi vedere mentre sbircio ciò che sta succedendo. Non se ne può avere un’idea se non si vede con i propri occhi: una festa. Una festa fatta di niente, solo di sorrisi e gioia, per i dolci arrivati lì per caso. Altri bambini arrivano verso la famiglia e il padre distribuisce equamente a tutti il contenuto della, adesso lo capisco, troppo piccola scatola. I bambini, erano un ammasso di polvere sabbia e fango, le uniche due cose luminose che si vedevano erano i loro denti, che riempivano sorrisi straordinari, e quel dolcetto, così rosso o giallo o verde, che con una delicatezza e una attenzione chirurgica veniva portato alla bocca, per essere assaporato a piccolissimi morsi. Una festa.
Ne parlavo con mia madre, ci siamo commossi insieme. Beati i poveri di spirito, mi ricorda lei, i semplici, coloro che con niente riempiono gli otri giganti dei loro cuori.
Come ho già detto prima, succedono delle cose, in India, che per quanto ci si provi non si riesce a capire, a spiegare, ma si possono sentire. Ti restano dentro, sono le esperienze per eccellenza che creano ciò che sei. Inutile provare a scrivere altro, cercare di descrivere la compassione, la tristezza, la povertà, il niente e il tutto che c’è in quell’immagine scolpita per sempre dentro di me. Una sola parola merita di essere detta, ricordata e tenuta a mente ogni volta che si è incerti se fare o non fare una cosa per gli altri, come ero io con quella guardia accanto che mandava via il bambino, una sola parola:
gioia.